“Come sono belli i libri che fanno piangere e ridere nello stesso tempo”, confidava Girolama al suo spasimante, Don Miguel Manara, nell’omonima opera di Milosz. Qui è diverso ed è ancora di più. Il volume che raccoglie le omelie di don Giacomo Tantardini, È bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio, suscita nel lettore un senso di commossa e stupita gratitudine per la possibilità di tenerezza che lascia percepire. La raccolta è stata curata da Massimo Borghesi e pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana per espressa decisione di Papa Francesco, consapevole di come le omelie dell’“uomo-bambino [che] si abbandona fra le braccia di Gesù” siano capaci di “toccare il cuore”.



Il punto di vista è sorprendente, giacché muove da un dato esistenziale comune: non sono le certezze, nemmeno quelle religiose, ad allietare il cuore dell’uomo. Tante volte la libertà umana diventa un peso insostenibile, le amarezze della vita inducono a una cinica rassegnazione, la stessa preghiera sembra non bastare (“Senza di Lui, se Lui non si fa vicino, se Lui non abbraccia il nostro povero cuore, non si agisce. Dice sant’Agostino: “Non agitur, non suscipitur, non bene vivimus”, non si può agire, non si porta il peso della nostra vita, il povero peso della nostra persona non si riesce a portarlo, non si vive bene”, omelia 20 marzo 2008).



Ed è sul limitare di un tale precipizio esistenziale, che si snodano le omelie degli ultimi anni di don Giacomo Tantardini: il sacerdote stimato dai papi, che è stato protagonista del cattolicesimo italiano e, tramite la rivista 30 Giorni, di quello internazionale. Si tratta di omelie che fanno “riposare il cuore”, come verrebbe da dire parafrasando quell’antifona delle Lodi che recita: “Contemplerò ogni giorno il volto dei santi, per trovare riposo nei loro discorsi”. Esse hanno una peculiarità (oltre alla brevità delle parole): non si soffermano a spiegare e argomentare; non contengono raccomandazioni morali, o insistenze religiose; nemmeno rimarcano la meritevolezza del permanere nella “retta via”. Più semplicemente, pregano: sono omelie oranti, dense di preghiera, prima ancora che di pensiero e di ragione; preghiere, per così dire, “di ritorno”, che più che nascere dalla domanda esistenziale dell’uomo, sgorgano da quella risposta di Dio che sempre precorre la domanda, sicché risuonano della commossa gratitudine per quanto ricevuto (“Anche la preghiera non è innanzitutto nostra, anche la preghiera è innanzitutto della grazia del Signore, di questa abbondanza di grazia, vigilet in nobis gratia tua, “la tua grazia preghi in noi”, la tua grazia rimanga in noi, la tua grazia sia vigilante in noi”, omelia 6 marzo 2010).



Come ripeteva in una delle ultime omelie prima di morire: “È il Signore che desta la fede. Com’è bello che sia Lui a destare la fede. L’iniziativa non è nostra, è Lui a chiamare, istante per istante, gratia facit fidem quamdiu fides durat, dice san Tommaso, “in ogni istante in cui la fede dura, è la sua grazia che la desta, è la sua grazia”, è Lui stesso che prende l’iniziativa. Com’è bello, perché vuol dire che allora è possibile sempre in ogni istante, anche nell’istante ultimo della nostra vita qui sulla terra, com’è bello che sia Lui che doni la fede. E così in questo abbandono di gratitudine al Signore, sospesi al suo miracolo, sospesi al miracolo della fede, il Signore può far tornare piccoli, “se non ritornerete come bambini non entrerete nel Regno dei cieli”. Il Signore dona di tornare piccoli, sospesi al suo miracolo, sospesi a quello che Lui opera. “Sto in silenzio non apro bocca, è Lui che agisce”, questo versetto del Salmo come fa compagnia e com’è reale! “Sto in silenzio, non apro bocca perché sei Tu che agisci. Come vuoi e quando vuoi, sei Tu che agisci” (21 gennaio 2012).

E tuttavia, non si tratta di omelie disancorate dalla storia, al punto che leggerle adesso rende ancora più stridenti talune insistenze e urgenze di allora. Sicché l’articolata e ragionata ricostruzione biografica del curatore del volume, Massimo Borghesi, aiuta a comprenderne le ragioni. È il caso anzitutto del ruolo di don Giacomo dentro Comunione e Liberazione, vissuto in assoluta figliolanza con don Luigi Giussani e lontano da ogni suggestione di schieramento. Lo racconta in modo appassionato il cardinale Angelo Scola: “L’itinerario con cui vivemmo l’appartenenza al Movimento e alla paternità di don Giussani fu differente e a volte, soprattutto negli anni dell’impegno pubblico fino alle prese di posizioni politiche, sembrò metterci in opposizione. Eppure, come un diamante che non si scalfisce neanche davanti ai colpi più aggressivi, la nostra amicizia resistette, generata da una stima a-priori e dalla sconfinata gratitudine per la radicale appartenenza di entrambi alla stessa storia, alla stessa paternità”.

È il caso, più ancora, dell’apporto fornito dal sacerdote d’adozione romana al cattolicesimo italiano e alla Chiesa universale. Ancora una volta è la logica dello schieramento a essere superata dall’urgenza missionaria propria dell’orizzonte post-cristiano dei tempi attuali. Il pensiero corre anzitutto alla fase successiva al crollo del Muro di Berlino del 1989, allorché era (e continua a essere) forte la tentazione di concepire l’Occidente post-comunista in chiave cristiana, di pensare il cristianesimo come “essenza”, identità, e non come avvenimento di grazia. In quegli anni don Giacomo spiegò che “La Chiesa non è una città fortificata, contro il mondo. La Chiesa, per esempio, non è l’Occidente cristiano di fronte, contro il mondo dell’Islam”. E così, consapevole del pericolo per la fede derivante dall’ideologizzazione del cristianesimo, mostrò l’“attualità” di Agostino nel contesto ecclesiale e sociale odierno attraverso continue lezioni in tante università italiane e poi con il mensile internazionale 30 Giorni; mensile che con le sue sei edizioni (italiana, inglese, tedesca, francese, spagnola, portoghese), con numeri speciali in russo, cinese, arabo, con le sue 50mila copie e la sua presenza in 170 Paesi del mondo, ha costituito la più importante rivista internazionale cattolica fino alla chiusura, nel 2012 subito dopo la sua morte.

Come ebbe a commentare il cardinale Ratzinger: “Mi arreca realmente gioia il fatto che una rivista di informazione come 30 Giorni abbia presentato per mesi al grande pubblico la figura di Agostino in un dialogo col nostro tempo. Un dialogo che realmente evidenzia la profondità e l’attualità del suo pensiero”. Del resto, le logiche di schieramento non riescono nemmeno a risolvere il caso biblico per eccellenza, quello di Caino e Abele: “Non abbiamo fatto nulla per essere dalla parte di Abele, potevamo essere dalla parte di Caino. Abele è colui che non costruisce la città, mentre Caino costruisce la città; Abele è colui che mette a disposizione solo sé stesso, perché nel suo corpo un Altro, un Altro usi il suo corpo come vuole, per rendere evidente la sua grazia” (omelie 12-11-2011; 21-1-2012).

Ed è un’insistenza tanto più significativa, solo a considerare che ritorna di continuo nelle ultime omelie. In queste la richiesta del “Vieni Signore” è ancora più urgente, consapevole e lieta: “Nella vita siamo chiamati a questa unione, a questa familiarità” (3 dicembre 2011); “Il tempo della vita ci è dato perché a questa umiltà anche noi dobbiamo partecipare, a questo essere nulla anche noi dobbiamo partecipare” (17 dicembre 2011); “è Lui stesso che prende l’iniziativa. Com’è bello, perché vuol dire che allora è possibile sempre in ogni istante, anche nell’istante ultimo della nostra vita qui sulla terra, com’è bello che sia Lui che doni la fede” (21 gennaio 2012).

Sino all’ultima brevissima e lapidaria omelia della Domenica delle Palme, quella che spalanca la sua finestra al dopo: “‘Davvero quest’uomo era Figlio di Dio’. Questa frase racchiude tutta la fede. Gesù è Figlio di Dio. A Lui affidiamo la nostra anima e il nostro corpo. A Lui affidiamo la nostra vita. Com’è bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio” (31 marzo 2012).

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