Siamo lontani dunque da una “visione del mondo,” per quanto arcana e sublime, e –per rispondere alla mia domanda iniziale – questo era reso sperimentabile da Giussani nella sua stessa posizione di parlante, nella struttura stessa del suo linguaggio, dalla decisione e passione con cui insegnava. E passione produce passione. Di qui forse l’aura inquietante di infatuazione con cui veniva avvertita l’appartenenza a quel luogo e a quel discorso.
Il dire come avvenimento
In realtà, ascoltarlo e/o dialogare con lui comportava una messa alla prova, inevitabile, della propria posizione di ascoltatore o di interlocutore, mettendo in evidenza una soggettivazione del discorso in atto, piuttosto che dei contenuti pur interessanti. Un sommovimento di questo tipo non tanto si verificava dalla “novità” del suo linguaggio, quanto dal fatto che i suoi discorsi non si potevano inquadrare in schemi noti e controllabili. C’era in gioco un elemento più radicale, e insieme molto più semplice: don Giussani parlava da quel luogo, dal suo essere preso da quella Memoria, abbordabile dal semplice, dal povero di cui parla il Vangelo, tanto quanto da un interlocutore sofisticato, intelligente del mondo e del suo limite, ciascuno restando toccato dal rigore di una posizione di onestà intellettuale del tutto straordinaria.
Ad un certo punto l’interlocutore si trovava introdotto, suo malgrado, in questo luogo altro, nuovo. “Nuovo” nel senso dato da sant’Agostino a questa esperienza. Per Agostino, un certo modo di parlare è “vero”, non nel senso di verità logiche e matematiche, ma nel senso di una novità come posizione, come luogo occupato dal soggetto parlante. Verità nel senso di coinvolgimento di chi parla con il luogo del suo discorso: “…ma c’è un certo modo di insegnare che è per via di richiami alla memoria, docere per commemorationem…”.
In altri termini, una questione intorno alla “verità” la si può porre solo nel senso di essere coinvolti nel luogo e nell’origine del ‘proprio’ discorso: quando qualcuno è in ciò che dice – dato esperienziale anche questo – l’enunciazione balza oltre gli enunciati, sempre riducibili gli uni agli altri. Mentre chi enuncia è sempre irriducibile e singolare. Ed è il rapporto imprevedibile tra i due livelli che ha potuto produrre quell’effetto seducente, a volte scambiato per infatuazione.
Di qui è una vita nuova che si apre per il soggetto, anche perché l’interlocutore può diventare accessibile senza costruzioni ideologiche che lo inglobino preventivamente. Non sempre l’interlocutore del Giuss si faceva cogliere in questa angolatura. La “mentalità” che prevale normalmente nelle nostre communities (forse in ogni societas) riposa sul dover inquadrare in uno schema, in una rappresentazione, quel che pensa e dice chi ci sta parlando, uno schematismo che orienta e da cui si deriva una propria posizione, od op-posizione. Sempre ci si rifugia in un partito da prendere, o un partito avverso da costruire.
Un’operazione di questo tipo è stata molto difficile nell’inter-locuzione di e con Luigi Giussani, non sempre generativo di consenso. Come dicevo, l’essere umano riposa più facilmente in uno schema, in un modo di rappresentarsi e rappresentare, come un velo preventivo. Per andare con lui in un’altra direzione, occorreva fidarsi di una diversa struttura della ragione. Essa è implicita in ogni rapporto in cui l’altro ci introduce in una diversa scena dell’esperienza, tale da mobilitare criticamente la presunzione di un’ideologia già costituita, per sé e per il proprio interlocutore.
L’Avvenimento in un dire
Che l’esperienza, che il linguaggio, il moto stesso del desiderio e della passione che ne derivano, fossero per Giussani Avvenimento è in qualche modo deducibile da quel suo modo singolare di porsi che prima ricordavo.
Ma è il termine stesso di “avvenimento” a implicare l’avventurarsi per qualche istante in un interrogativo, in una precisazione. Approssimando, e per restare nei limiti di questo intervento, “avvenimento” è ciò che ad-viene, che arriva, sopra-giunge, mi tocca senza che io possa averne dominio o programma. Un incontro, una notizia, una visita, lieta o importuna che sia. Nella sua radice troviamo infatti l’idea di un abbattersi, di una movimentata caduta, di uno scontro, ma insieme anche l’idea di un convenire, di un essere per (vedi la stessa radice in ‘avvenente’). E non a caso il termine Avvento è foriero – ad ogni anno liturgico – del nuovo che si approssima.
Gesù di Nazareth è stato un avvenimento, un avvento del nuovo nella storia, spaccata in due dal suo venire al mondo. La sua persona fisica è storica, documentabile e si è posta come decisiva in forza di una presenza pur misteriosa che inaugura una modalità, prima impensata di formulare, di radicare dei giudizi.
Per questo mi ha da sempre colpito che fosse invalsa l’abitudine di indicare le elaborazioni e indicazioni dei momenti formativi con il termine di ‘discorso’, essendo improbabili le suggestioni faucaultiane o lacaniane, all’epoca non ancora emergenti. Discorso lo si potrebbe dire un modo di presenza che trasforma le parole in legame, in cui i termini di riferimento non sono il mosaico, pur ben costruito, di certi contenuti, ma fanno sì che parole e atti si dispongano in un discernimento. La particolarità di Giussani è di aver inteso e di essersi lasciato avvincere da questo ‘discorso’ come possibilità di un legame sociale nuovo. Trasmettendolo.
Al tempo della sua formazione, scendendo la scalinata del seminario con un compagno, che diventerà arcivescovo di Bologna, lo sente sussultare mentre dice: “Ma, ti rendi conto, Luigi, che Dio è un uomo?!”. Questo flash, spesso citato dal Giuss, ci mette sulle tracce della sua esistenza come sviluppo incalcolabile di questa affermazione. Che Dio sia un uomo, con le conseguenze che comporta. Giussani ha avuto la genialità culturale di andare al fondo del senso e delle implicazioni di questo Annuncio come Avvenimento.
Un luogo
Ho cercato di sottolineare un elemento sia culturale sia di sensibilità, direi quasi di temperamento, di don Giussani, puntando sul “fatto” cristiano come avvenimento.
Questa affermazione, che la fede sia incontrabile e si esprima, nasconde comunque, di sua natura, un elemento discutibile e anche inafferrabile. In effetti, in che modo un Annuncio – affermazione di un Mistero che si propone come ineffabile e imprendibile – può esprimersi nelle concrete vicende degli esseri umani?
La genialità, anche teologica, di Giussani, discepolo e acuto lettore del meglio della teologia dei suoi anni, come dicevo, si è espressa nella consapevolezza lucida e commossa proprio delle implicazioni concrete, direi operative, dell’azione salvifica: in una “incarnazione” non semplicemente riconosciuta e pensata come giusta, ma vissuta dal di dentro della sua genesi.
In questo modo, giudizio e azione si tenevano costantemente per mano. Il che si collega a uno stile, irripetibile.
Dunque, se il fulcro di questa particolarità risiede in un punto così singolare, su che cosa riposa il “comune”? Come fare comunanza, come accomunarsi, come fare comunità? Che cos’è una prassi in grado di accogliere il punto, anzi, come ho detto, il luogo originario di una esperienza? Comune implica – nelle sue origini – scambio, distribuzione, e anche un esser preso in un obbligo (l’im-mune è peraltro il libero da obblighi).
Questo luogo della singolarità dell’incontro, di una certa solitudine quindi, è colto e pensato in realtà nel suo prodursi come indisgiungibile da un “insieme” – fu del resto la novità coassiale all’idea stessa di Avvenimento, di “fatto” – indisgiungibile dall’essere con altri, incontrabili essi stessi in quanto generati da quell’esperienza e da quel luogo singolare come compagni di esperienza e di cammino. Luogo ecclesiale, per definizione, costituito dal riconoscimento quasi inconsapevole di un legame che precede. Comunità come fattore principale della verità di sé.
Un essere umano prodotto storicamente secondo le coordinate sopra appena schizzate si costituisce e si sviluppa in una prassi singolare, inedita. Si trattava, si tratta, dunque di una esperienza nuova. Nuova, nuovo sono termini che tornano martellanti nei documenti di quegli anni. “Cieli nuovi e terra nuova”, un “modo nuovo” di parlare, di dialogare, di capire, di vivere.
Nel fondatore del Movimento ciò è stato immediatamente e provocatoriamente visibile. Giussani ha sempre insegnato, producendosi, anche suo malgrado, in ciò che diceva, si rendeva presente, presenza, si produceva nell’oggetto stesso del suo discorso, realizzando qualcosa della logica dell’incontro in quanto non catturabile in uno schema preventivo: quando dico, nel mio dire rendo presente, creo un “movimento” inconsapevole in cui io stesso sono compreso, generato. E l’incontro sta nella straordinaria potenza di questo dire che non avanza da un mio, da un me.
Giussani, quando parlava non “possedeva” quello che diceva nemmeno nella forma, supposta interiore, di una finta umiltà. Era deciso, spesso violento, entusiasta, travolgente; spesso polemico e perfino contraddittorio. Talvolta contemplativo, fino agli estremi limiti. Rendendo così presente – attraverso il suo stile – l’Avvenimento e la sua profonda logica. Un movimento di linguaggio sperimentabile negli incontri, nelle lezioni, nelle sintesi, nei testi, soprattutto negli Esercizi spirituali.
Nel superamento radicale e travolgente di modalità di discorso asseverativi e dottrinali, peraltro necessari in certe situazioni anche in ambito ecclesiale, è – questa – testimonianza di uno stile che è inaudito: la consegna di un lasciarsi portare dal discorso, da ciò che opera nel “discorso”, nel legame.
Il che lo rivela capace di una potenza paradossale, come esperienza di cambiamento radicale del soggetto parlante.
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