“Pour se poser il s’oppose”, per porsi uno si oppone. Don Luigi Giussani citava questa frase del filosofo cattolico Jacques Maritain per indicare la modalità inevitabile di una reale presenza nell’ambiente.
Occorre accettare la sfida del mondo, ostile ai valori di chi non si omologa al pensiero dominante.
Ripenso ad un incontro del 1974 tra don Giussani – il Gius, come era chiamato – ed un gruppo di responsabili di Comunione e Liberazione, convocati per esaminare la difficile situazione creatasi all’Università Cattolica.
Si sta avvicinando il referendum sull’aborto. La mentalità prevalente è schierata a favore della legge che, in fondo, non obbliga nessuno ad abortire, ma lascia a chi vuole la libertà di farlo. Ma qualcuno intuisce che prima o poi si metterà a tema la droga libera o l’eutanasia… insomma, c’è in ballo la concezione della vita, presente e futura.
Occorre prendere posizione, esprimere un giudizio pubblico, farsi portatori di una cultura diversa.
E gli studenti di Comunione e Liberazione tappezzano le pareti dell’Università di manifesti e dei loro giudizi: espressioni, appunto, di una cultura che tocca la vita personale, la società e la politica. Insomma, vivono una fede “integrale”, definita ottusamente dai giornali “integralista”.
Giovanni Paolo II avrebbe scritto nell’82: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”.
Quelli del Movimento Studentesco, Avanguardia Operaia e Lotta Continua strappano i manifesti di Comunione e Liberazione e arrivano a picchiare chi viene sorpreso ad affiggerli.
Agli universitari di CL, bollati come fascisti, viene impedito con la forza di parlare nelle assemblee: ovviamente, dagli antifascisti di turno.
Non si danno per vinti e chiedono uno spazio adeguato al rettore Lazzati per organizzare un dibattito pubblico, con esponenti a favore e contro l’aborto. La richiesta è respinta, per la “possibilità di disordini”.
Don Giussani, allora, convoca un gruppo ristretto di universitari del movimento, un paio di giovani professori a contratto ed uno prossimo a diventare ordinario. All’ordine del giorno: le iniziative da assumere per denunciare ed opporsi al clima di intolleranza.
Si susseguono le proposte di possibili volantini – “ciclostilati”, all’epoca –, appelli all’opinione pubblica, lettere di protesta al Senato accademico. Ogni idea viene discussa e, per ciascuna, si individuano quelli che potrebbero portarla avanti. E ogni volta, immancabilmente, il professore aspirante ordinario precisa: “Tenete conto che io, per la mia posizione, non posso espormi”. Una, due, tre, più volte.
All’ennesima, il Gius si fa cupo e la voce sembra più roca del solito: “Quando sarai morto, almeno in quella circostanza, potremo esporti?”.
Per porsi uno si oppone. O almeno, si espone, aggiungo io ripensando a quei momenti.
Oggi i cristiani sono numericamente una minoranza. E quelli che si battono per i propri valori sono un piccolo gregge con qualche pastore già rassegnato – o consegnato – alla mentalità corrente.
Così i cristiani affrontano balbettando il dialogo col mondo, mentre si fanno sempre più flebili i richiami ai valori non negoziabili ed alla civiltà maturata in duemila anni.
Molti, poi, si trovano nelle condizioni dell’aspirante professore della Cattolica: non hanno il coraggio di opporsi alla deriva culturale in atto.
All’università, la sinistra dura e pura di allora – quella de La classe operaia va in paradiso – usava la violenza con chi non era d’accordo. Il pensiero progressista di oggi – quello della classe agiata che può permettersi l’utero in affitto – vuole “cancel culture” e “diritti civili”, contro il parere dei retrogradi che ancora dissentono.
Un’omologazione del pensiero in nome della democrazia e dell’antifascismo?
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