Pensare a don Luigi Giussani e al movimento di Comunione e Liberazione equivale per me a pensare con gratitudine agli anni in cui frequentavo l’università, da studente, prima, e da giovane professore, poi: una parte importante della mia vita nella quale don Giussani e il suo movimento, seppure a distanza, mi hanno sempre fatto compagnia. Immaginabile, dunque, l’emozione e la commozione che ho provato leggendo questo libro (Una rivoluzione di sé. La vita come comunione 1968-1970), scritto da don Giussani proprio in quegli anni.



Premetto che non ho mai fatto parte del movimento. Da studente universitario credo di non aver mai conosciuto personalmente un “ciellino”. Eppure, già allora, il movimento mi piaceva. Mi colpiva soprattutto l’esperienza di fede e l’attenzione che veniva prestata alla necessità di tradurla in cultura. Ma soprattutto ero affascinato dal modo in cui i ciellini parlavano di Gesù Cristo, della Chiesa e del suo modo di farsi storia. Era un modo che non aveva nulla a che fare col manierismo di sinistra che aveva colonizzato la cultura di quegli anni, compresa quella di gran parte del mondo cattolico; ma non aveva nulla a che fare nemmeno col clericalismo conservatore che persisteva all’interno della Chiesa. E questo libro di don Giussani lo chiarisce in modo impareggiabile.



Non starò a dire qui i molti elementi che lo compongono. Mi limito soltanto ad accennarne uno certamente fondamentale: l’esortazione a prendere sul serio la nostra fede, chiarendo a noi stessi perché crediamo. Dobbiamo tornare all’origine, precisamente “a quell’inizio che può riaccadere in ogni contesto”, come dice Prosperi nella sua bella Prefazione.

Vivevamo cinquant’anni fa e viviamo ancora oggi in un tempo in cui né la tradizione, né la teoria sono più in grado di muovere il cuore degli uomini. “Tradizione e teoria, tradizione e discorso – dice don Giussani – non possono più muovere l’uomo di oggi” (p. 43). Non possono farlo una tradizione ridotta sempre di più a stantia ripetizione, né una teoria sempre più astratta, tendente per lo più a una sterile, narcisistica affermazione di sé. Ebbene, di fronte a questa crisi, la proposta di don Giussani è semplice e netta: ci vuole Cristo, la sua presenza viva, soltanto Lui può sottrarci alle secche ideologiche nelle quali continuamente ci impantaniamo.



Gesù Cristo non è una teoria. Il cristianesimo, dice don Giussani, è un avvenimento. Dobbiamo dunque replicare in noi l’esperienza dei primi cristiani, l’esperienza dell’inizio.

In una pagina molto bella ci viene detto che i primi cristiani “non credettero perché Cristo fece quei miracoli, non credettero perché Cristo citava i profeti, non credettero perché Cristo risuscitò i morti… Credettero per quello che Cristo apparve. Credettero per quella presenza, non per quello che fece e che disse. Credettero per una presenza… Credettero per una presenza carica di proposta”.

Sono parole dirompenti sia rispetto alla Chiesa che rispetto al mondo. Solo la presenza di Cristo, la comunione con Lui, mette al riparo la comunità cristiana dalla tentazione ideologica, sempre in agguato nelle cose umane, nel 68 come oggi.

“Prima di qualunque operazione, prima di qualunque struttura da erigere, prima di qualunque progetto da stabilire – scrive don Giussani – il compito è realizzare una autocoscienza nuova; cioè un accorgersi nuovo di un’altra realtà in me, che io sono, e perciò l’accorgermi di strumenti di giudizio e di azione diversi”.

Se pensiamo che queste parole sono state scritte nel 1970, allorché fuori e dentro la Chiesa erano tutti più o meno eccitati all’idea della rivoluzione imminente, sulla scorta di Mao o di Che Guevara, c’è da rimanere a bocca aperta. Siamo di fronte a una fiducia totale nella capacità di Cristo di illuminare la realtà e di cambiarla (il carattere “performativo” della sua parola, avrebbe detto Benedetto XVI). Nella misura in cui sentiamo Cristo in noi, noi trasformiamo il mondo e noi stessi. Dobbiamo soltanto sentirci in comunione con lui. Il resto ci verrà dato in sovrappiù.

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