Spesso sono gli umili a fare la storia. Quella “piccola” di tutti i giorni, che nessuno scrive mai. Ma anche la “grande storia”. Così, non lo troverete citato nei manuali di storia dell’arte, ma il fatto è che un semplice prete di campagna, don Antonio Savioli, e prima di lui un intero convento di suore clarisse, figlie di san Francesco d’Assisi, hanno contribuito a conservare e poi a scoprire la vera identità di un capolavoro prezioso, una perla della storia dell’arte europea, una Madonna col Bambino del pittore e incisore tedesco Albrecht Dürer (1471-1528), per anni creduta essere dell’artista bolognese (pur grande) Guido Reni (1572-1642).
Figlio di umili muratori, don Antonio (1915-1999), è originario di Fusignano in provincia di Ravenna. Dopo essersi dedicato ad assistere le vittime dell’ultimo conflitto mondiale, nel dopoguerra si appassiona allo studio e all’insegnamento dell’arte, coniugando bellezza e carità, e forse cercando così di cancellare nella sua mente gli orrori della guerra. Nel 1959 don Antonio si imbatte in questa dolcissima tavola di Madonna col Bambino conservata da secoli avvolta in un panno dietro le grate di due conventi femminili francescani, tutti e due in provincia di Ravenna, prima quello di Cotignola e poi di Bagnacavallo. Sarà lui per primo, don Antonio, a mettere in discussione la paternità di Guido Reni fino al riconoscimento in quella Madonna della mano di Dürer, confermato poi da un critico come Roberto Longhi.
L’affascinante icona, un olio su tavola di dimensioni modeste (47,8×36,5 cm) oggi appartenente alla collezione Magnani Rocca (Traversetolo, Parma), è stata il centro indiscusso della mostra Dürer. Mater et Melancholia curata da Vittorio Sgarbi e da poco conclusa al Mart di Rovereto. L’icona rappresenta una giovane donna dal volto di una straordinaria bellezza, avvolta in un’atmosfera tutta italiana, ma dai tratti spiccatamente nordici. Si sente in filigrana il disegno, lo stile di un’incisione tedesca, l’arte in cui Dürer fu maestro assoluto. E sono stati proprio questi “tratti d’oltralpe” che hanno spinto don Antonio Savioli a mettere in discussione la paternità di Guido Reni, cercando prima un nome tra i pittori del Nord Italia e aprendo così la strada al grande critico Roberto Longhi che, in un articolo pubblicato sulla rivista Paragone (1961), attribuisce con certezza la paternità dell’opera ad Albrecht Dürer, il “maestro di Norimberga”, il “Leonardo d’oltralpe”. Scrive don Savioli: “In un primo momento io cercai, senza risultato, il pittore fra i lombardi della diaspora leonardesca. Ma bastò al prof. Longhi una pallida fotografia per scoprire la mano del grande Dürer, nome da lui pronunciato e come soffiato sotto l’impulso di una conturbante intuizione”.
L’aria, l’atmosfera, il soffio, l’impulso. E una semplice foto in bianco e nero. Non sappiamo come, ma tornando indietro nel tempo, la tavola del Dürer finì, forse durante un suo soggiorno in Italia, nelle mani del commerciante di seta Giovanni Filippo Certani, fondatore dell’Accademia artistica dei Selvaggi. Il Certani nel 1621 donò quella Madonna col Bambino, che considerava di Guido Reni, al convento di Cotignola (Ravenna) in dote, insieme a 500 scudi, per l’ingresso della figlia Isabella nelle clarisse, figlie di santa Chiara. Con un po’ di immaginazione, proviamo a varcare in punta di piedi le mura del convento di Cotignola, cercando di intravedere, nel coro, dietro le grate dove veniva esposta raramente e su richiesta, quell’icona preziosa e di rara bellezza. In quel coro, alle voci oranti si era da poco aggiunta quella della giovane novizia Isabella Certani, di cui si legge nelle Vite dei santi e beati e servi di Dio della diocesi di Faenza che, divenuta suora con il nome di Dorotea, si era così affezionata a quell’immagine donata dal padre al convento da “starle davanti molte ore in devozione, e n’ebbe un giorno visione mentre le porgeva calde suppliche”.
La Madonna oggetto di quella “visione” rimase nascosta nel convento di Cotignola fino alla fine del Settecento, quando le truppe napoleoniche scesero in Italia, spogliando chiese, conventi e musei. Le suore, temendo il peggio, cioè di perdere la loro Madonna col Bambino – che chiamavano con affetto Madonna del Patrocinio (cioè della protezione) – idearono uno stratagemma. Ne fecero fare una copia esatta che venne sottratta dai soldati al convento al posto dell’originale.
Passata la furia napoleonica e chiuso il convento di Cotignola, si apre un nuovo capitolo per l’icona della Madonna col Bambino, trasferita a pochi chilometri di distanza, nel convento di Bagnacavallo, sempre delle clarisse. Ci viene in aiuto un documento dell’epoca: “La Madre Sr. Gertrude Canattieri Religiosa Claressa del soppresso Monastero di Cotigniola entrò nel nostro convento lì 13 maggio 1822 in età d’anni 73 […] Portò una bellissima immagine della Beata Vergine di gran prezzo quale Immagine era delle sue Fondatrici del Convento di Cottigniola, ed ora sta collocata nel nostro Coro, e si mostra miracolosa nel ricorso che facciamo a lei nelle nostre necessità”. Ed è nel convento di Bagnocavallo che nel 1979 don Antonio Savioli scopre, vede, studia, confronta con altre immagini quell’icona della Madonna col Bambino che le suore continuano a custodire gelosamente, fino ad avanzare coraggiosamente per primo, sul Bollettino Diocesano di Faenza del 1961, l’ipotesi che si tratti del Maestro di Norimberga. Dürer quindi. E a luglio arriva puntuale la conferma del Longhi.
E siamo ai nostri giorni. La mostra di Sgarbi al Mart di Rovereto, gli studi e i restauri successivi dell’opera non solo confermano la paternità di Dürer, ma retrodatano la Madonna con il Bambino dal 1505, anno del secondo viaggio in Italia del pittore di Norimberga, al 1495, anno del suo primo viaggio a Venezia. Quell’aria di laguna aveva senz’altro addolcito i tratti duri – il ductus si dice in gergo – del maestro tedesco, guidando la sua mano a far fiorire questa Madonna-capolavoro, dai tratti nordici ma dal “cuore” italiano. Soprattutto il velo è un chiaro riferimento, secondo Longhi, al pittore veneziano Giovanni Bellini. Quel “rovello tedesco” (come lo chiamava Giovanni Testori a proposito di un crocifisso nordico), quell’impeto, quella furia ribelle, quella melanconia e quell’ansia moralistica che sarebbe sfociata nell’arte della Riforma luterana, si addolcisce qui a contatto con i maestri del Rinascimento fiorentino e del Cinquecento veneto, fino a parlare (è sempre Testori a farlo) di “mani trepide e innamorate”.
L’Amore. È qui il miracolo, la parola-chiave. Amore, parola dal suono impossibile da pronunciare per il mondo anglosassone. L’amore – carisma tutto italiano – che influisce sull’arte europea e nordica. L’influsso di Bellini, Giorgione, Lotto, Verrocchio e Antonello da Messina rintracciati da vari critici d’arte in questa giovane Madonna. Pure, l’ovale del suo volto, le labbra strette, la candida cuffietta nordica divisa in due sulla fronte, la luce filtrante della scena, i particolari delle fragole e dei fiori secchi, il tratteggio – la texture della pennellata – ci rimandano ancora in filigrana alle incisioni tedesche di Dürer. Solo lui è capace di evocare quelle dita sottili tra madre e figlio, dita che tradiscono una capacità di disegno straordinaria, dita che si sfiorano ma non si toccano, anche se il pollice del Bambino sembrerebbe conficcarsi nell’indice della madre, per chiederle aiuto. E quel Bambino, così metallico, come inciso nella lastra di metallo col bulino, e nello stesso tempo così morbido, come modellato nella cera, sta per scoppiare in lacrime, ma non lo dà a vedere. Pure alza un volto livido e contratto verso la madre.
Solo il genio di Dürer poteva concepire un’immagine di Madonna così giovanile, intimista e allo stesso tempo ferma e precisa, in perfetto equilibrio tra sentimento e riflessione, affetto verso il Bambino e presa in carico di tutta la sua responsabilità di Madre. Sguardo fisico e insieme sguardo interiore. Sguardo che scende e si srotola come un balsamo dai capelli ramati, così soffici e sottili, e che sfuggono ai due lati del velo color ruggine per posarsi sulla mano.
Le pieghe della veste rosso scuro di Maria cadono regolari sul petto. Il manto blu scuro foderato di una stoffa cangiante rinchiude la donna in una cappa. La simbologia del rosso indica regalità, il blu l’umanità che la riveste. L’ovale perfetto del volto rischiara come un lume il buio drammatico in cui Madre e Figlio si trovano a contemplare il destino doloroso che li attende. Lame taglienti di luce segnano gli spigoli del muro di sinistra, mentre a destra un arco introduce in un ambiente esterno fatto di mattoni a vista. Quel muro rimanda a quattro secoli di sguardi di monache in preghiera.
Quest’opera – conservata alla Magnani Rocca di Traversetolo – è consegnata da oggi alla nostra contemporaneità e ci testimonia come, nell’universalità del linguaggio dell’arte, nord e sud, ragione e sentimento, dovere e piacere, fede e disperazione, polarità opposte insomma, si fondano in un solo colore dominante: il rosso della veste di Maria. Colore dell’Amore.
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