Non sono stati i suoi 230 chili di peso, regalo di una disfunzione dell’ipofisi, a renderlo famoso (per quanto le popolazioni del Karamoja vedessero in quel sovrappeso una benedizione di Dio, oltre che degli dei). Piuttosto, i 147 viaggi cargo che organizzò tra anni Settanta e Novanta per portare nella regione più povera dell’Uganda (terra di pastori nomadi, di guerrieri e di cronica carenza idrica che riduce l’agricoltura a pura sussistenza) una quantità indefinita di alimenti, attrezzature per lo scavo di pozzi d’acqua, strumentazioni mediche, aiuti di ogni genere comprese lavagne per le scuole e macchine da cucire per le donne.



A quasi tre decenni dalla morte (Ponte dell’Olio, Bergamo, 1994) a 68 anni, dei quali solo gli ultimi dieci da sacerdote (pur con una vocazione precocissima) senza passare – caso rarissimo ai nostri tempi – dal seminario, don Vittorio Pastori rimane per tutti e per sempre il Vittorione.

La sua stazza, che negli ultimi tempi lo costrinse a salire e scendere dagli aerei per mezzo di un montacarichi, è stata pari ad una generosità che non era frutto di slanci ideali o di mera filantropia, ma di una fede concreta succhiata insieme al latte materno nella casa di cortile all’ombra della basilica di San Vittore, cuore geografico e religioso della sua città, Varese. Fede aiutata da un carattere forte che gli consente di abbattere le barriere e di chiedere (e ottenere) aiuti altolocati (un nome tra gli altri: Giulio Andreotti) e visibilità mediatica (Pippo Baudo, Raffaella Carrà, Maurizio Costanzo).



“Insegnava un docente di seminario che la bestemmia a volte è una preghiera di protesta. Allora si può affermare che Vittorione ha protestato molto in Africa quando dall’altare lo imbarazzava recitare il Padre Nostro. ‘Ma come posso dire in Karamoja Dacci oggi il nostro pane quotidiano e non vergognarmi se ho davanti persone per le quali il primo prestinaio è distante 650 chilometri?’”.

“Non diceva panettiere, fornaio, ma prestinaio, prestinée, perché in quel modo la gente lombarda chiama in quel modo il luogo dove si va a comperare la michetta e il filoncino” scrive Gianni Spartà nel suo recentissimo Don Vittorione l’Africano (Pietro Macchione Editore, 2022, impreziosito dalla presentazione di papa Francesco, sottotitolo “Il ristoratore che rinunciò a servire i primi per andare a sfamare gli Ultimi”.



Vittorio Pastori aveva in centro città un ristorante che ancora porta il suo nome, “da Vittorio” appunto, che serviva prelibatezze alla buona borghesia tra dopoguerra e boom economico. Ma negli anni Sessanta la Provvidenza condusse a Varese come prevosto Enrico Manfredini (la città gli ha dedicato una fiorente scuola che va dalle elementari alle superiori) e la sua vita cambiò strada: dalla ricca provincia industriale alle lande poverissime dell’Africa attraverso Africa Mission, onlus che insieme fondarono a Piacenza, dove il monsignore venne poi destinato e che prosegue ancora oggi, a mezzo secolo esatto dalla sua nascita, gli obiettivi di aiuto che l’hanno fondata su uno slogan divenuto famoso: “Chi ha fame, ha fame subito”.

Così “era solito dire don Vittorio Pastori, il ristoratore che si è fatto missionario e ha speso la sua vita per aiutare gli ultimi – scrive il papa –. Il suo impegno ci interroga e ci rimette davanti agli occhi e al cuore le parole di Gesù che leggiamo nel capitolo 25 di Matteo: tutto quello che avremo fatto per aiutare gli ultimi e i poveri, lo avremo fatto al Signore. Auguro ai lettori di questo libro di lasciarsi ferire dalla testimonianza di don Vittorione”.

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