LETTURE/ Donne in guerra: 70 anni fa come oggi, sopportare per rinascere
Chi ha visto da adulto la seconda guerra mondiale ha raccontato il dramma di quei giorni a figli e nipoti. La guerra è sempre la stessa: sopravvivere non è scontato
Viviamo ormai una guerra mondiale, combattuta in Ucraina ma che coinvolge decine di altri Stati con gli effetti di sanzioni e ritorsioni. E ovunque nel mondo le immagini della guerra rimbalzano ossessivamente sugli schermi, davanti ad adulti e bambini. La guerra mondiale del secolo scorso me l’avevano raccontata genitori e nonni quando ero un ragazzino, badando però a sdrammatizzare, a stemperare ogni eccesso di crudeltà e di dolore che avevano sperimentato.
Mia nonna e mia mamma erano le mie “inviate di guerra”: mi raccontavano come l’avevano vissuta da mogli di due militari della Marina, imbarcati su navi della base della Maddalena, in Sardegna. “Dopo varie missioni e rotte pericolose – mi racconta un giorno mia nonna –, tuo nonno era stato destinato all’Ufficio Cifra di Roma, dove arrivavano e partivano i dispacci – cifrati, appunto – degli alti comandi della Marina. Un lavoro stressante, ma almeno non rischiava la vita come quando era in alto mare”. “E tu? Ti eri trasferita con lui?” le chiesi.
“Impossibile – mi spiegava lei – avevo figli e casa da curare. Ogni tanto facevo un salto a Roma per qualche giorno, affidando figli e casa a qualche anziano parente… Mi imbarcavo di notte sulla prima nave ausiliaria diretta al porto di Civitavecchia, poco a nord di Roma”.
“Una nave da guerra?!” incalzavo. “Di solito – rispose lei – si trattava di motozattere per il trasporto di militari e mezzi, col fondo piatto e un portellone davanti, in grado di scaricare tutti anche su una spiaggia, se necessario: motozattere identiche a quelle usate anni dopo per lo sbarco in Normandia. Non erano fatte per navigare, tanto che anche l’equipaggio soffriva il mal di mare… io mi sedevo su una cassa vicino ad una scialuppa di salvataggio e viaggiavo con le scarpe slacciate e il giubbotto salvagente”.
Cercavo di immaginare l’oscurità, il possibile siluramento, il tuffo in mare tolte solo le scarpe… Eppure mia nonna sembrava parlarmi di circostanze difficili, certo!, ma che andavano affrontate come tutto, nella vita.
“Non ti è mai capitato di aver paura?” proseguii.
“Proprio a Roma: una volta, all’arrivo di Pippo mentre stavo camminando lungo un viale alberato”, fece lei.
“Pippo?” chiesi sorpreso.
“Sì – continuò –. La gente chiamava così i caccia alleati che arrivavano all’improvviso, a volo radente per evitare la contraerea. Pippo sparava ed io mi riparavo dietro il tronco di un platano, poi ripassava mitragliando di nuovo e dovevo saltare sul lato opposto… Per fortuna, di platano in platano, sono riuscita a raggiungere un rifugio, nella cantina di un palazzo”.
Io ascoltavo ammirato e disorientato al tempo stesso, per la irriducibile voglia di vivere di mia nonna. Mia mamma non era da meno. Per attutire l’effetto degli episodi più cruenti, li ingentiliva con ricordi più lieti.
“Carina, quella spilla!”, le dico un giorno, scorgendola sulla camicetta.
Sorride compiaciuta, poi sposta leggermente il busto in avanti per metterla meglio in mostra: “Bella, vero? Un regalo di papà, appena sposati… Avevo anche una collana, una catenina e qualche piccola medaglia ricevuta per la comunione e la cresima: era tutto il mio tesoro!”.
Mia madre sospira, poi aggiunge: “Un tesoro che poteva costarmi caro. Vivevamo assieme a La Spezia, durante una sosta forzata della nave danneggiata da un attacco nemico. Un giorno suona la sirena di allarme antiaereo ed io perdo qualche minuto per raccogliere i miei ‘gioielli’”. Mia madre ride al termine “gioielli”. Poi riprende. “Questa spilla era rimasta su un vestito, finalmente la trovo, caccio tutto in borsetta e scendo le scale di corsa. In strada c’è papà che mi aspetta e impreca per il ritardo. Ci affrettiamo verso il rifugio ma, dopo un centinaio di metri, sento alle nostre spalle un sibilo e poi una forte esplosione… Mi volto, con i timpani che mi dolgono per il boato: la casa che abbiamo appena lasciato è un cumulo di macerie, per una bomba che l’ha colpita in pieno”.
Lo spavento per l’esplosione è ormai un pallido ricordo, mentre resta davanti ai nostri occhi quel piccolo monile d’oro che mio padre le aveva regalato.
Oggi tutto è cambiato. La televisione ci racconta ogni giorno nuovi episodi di devastazione e morte in Ucraina, calcando la mano senza necessità – visto il livello già presente di brutalità – e soffermandosi sulle immagini più forti. Mi commuovo quando vedo le donne ucraine coi bambini in braccio o per mano, seguite spesso da donne più anziane: allora penso a mia madre e a mia nonna. Immagini di donne in guerra che curano e proteggono la vita come possono, che mantengono la trama fragile ed intermittente dei rapporti perché un giorno tutto possa ripartire.
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