Forse farà sorridere partire da una considerazione filosofica per provare a gettare un po’ luce sulle polemiche seguite alle vicende di violenza e degrado di Palermo e Caivano, ma essendo l’imputabilità – concetto chiave della filosofica del diritto – il focus della polemica, è proprio da lì che occorre partire. Saranno in pochi a riconoscere nel concetto di imputabilità uno dei capisaldi del pensiero di Hans Kelsen (1881-1973), il costituzionalista e filosofo del diritto autore della Dottrina pura del diritto e, forse ancor meno, ad avvertire le ricadute pratiche – la giurisprudenza è scienza pratica – della sua tesi dal sapore teoretico.



Ve la propongo nella formulazione asciutta utilizzata da Giacomo B. Contri (1941-2022) – tra l’altro, traduttore e commentatore di Kelsen – che sul pensiero del giurista viennese, poi cittadino americano, ha incardinato una profonda rielaborazione del lascito psicoanalitico freudiano. Eccovelo, dunque: “L’uomo non è imputabile perché è libero: è libero perché è imputabile”. Frase che andrebbe conclusa col punto esclamativo, tanto rivoluzionaria è la sua portata, anche sotto il profilo epistemologico, perché con essa Kelsen, che era ebreo, divide come un novello Mosè il Mar Rosso della scienza in due parti: quella della causalità e quella dell’imputabilità. Su questi aspetti teoretici qui mi fermo, e rimando al lettore la scoperta di un piccolo tesoro, un breve e ricchissimo articolo di Contri dal rivoluzionario e per qualcuno conturbante titolo: Il beneficio dell’imputabilità (1998, e-book disponibile on line).



Al netto delle polemiche politiche è l’imputabilità a costituire il reato, di conseguenza la sanzione, ed è sempre l’imputabilità a costituire l’autore del reato responsabile delle proprie condotte e delle sue conseguenze. Se invece un soggetto non è imputabile, per età o condizione psichica, quale che sia la sua condotta essa non costituisce reato. L’ipotesi dell’abbassamento dell’imputabilità a 12 anni configurerebbe innanzitutto, a livello culturale, un alert sul momento in cui un giovane raggiunge una competenza sufficiente a leggersi all’interno della società nella quale vive. Un pensiero che va in controtendenza con l’ideale sociale che ci vorrebbe tutti ragazzi per sempre, a prescindere dall’età.



A stimolare la produzione del diritto in tutte le epoche sono determinanti le condotte individuali e sociali: reati come il cyberbullismo e affini non avrebbero mai visto la luce prima della diffusione di massa di internet, ed è così anche per il coinvolgimento di ragazzini, di età inferiore ai 14 anni, in attività criminali, o per il diffondersi delle baby gang, o del problema posto al legislatore dal consumo indiscriminato e banalizzato di materiale pornografico d’ogni genere ad ogni età.

L’attività criminale non è solo l’antitesi del diritto, per così dire il suo “totalmente altro”, essa è pur sempre interna al giuridico. Detto in altre parole, serve una competenza normativa per trovare la falla della legge ed è questa competenza, che l’intelligenza criminale perverte, che il legislatore, in rappresentanza dell’educatore, dello psicologo, del medico, dell’insegnante, deve saper cogliere. Il criminale sfruttamento minorile (di ogni genere e specie) pone (non da oggi e non solo in Italia) le istituzioni di fronte alla competenza dei minori, ragazzi e ragazze, bambini e bambine, che una società solamente protettiva non vede, non valorizza e non promuove, riducendo l’apporto sociale dei minori alla pura esecuzione del comando del mondo adulto.

Su questo aspetto la criminalità arriva prima: non ha nulla da dire, e tuttavia nella sua pratica criminale c’è qualcosa da saper ascoltare. Nell’opera di valorizzazione dell’apporto kelseniano, Contri trasferisce il concetto di imputabilità nell’ambito della cura di quelle malattie del corpo di cui, a differenza di quelle di stretta competenza medica, un soggetto può imputarsi, almeno in parte. In questa categoria rientra tutto lo spettro della psicopatologia: dalla nevrosi alla schizofrenia. Quella di Contri è una straordinaria “mossa del cavallo”, che toglie il malato, ma in generale il soggetto svantaggiato, dalla condizione del “poverino”, perché se ci ha messo del suo nel peggio, potrà mettercelo anche nel meglio.

La metafora della “mossa del cavallo” vale anche per un secondo aspetto, che riguarda la possibilità di cambiare direzione (come il cavallo negli scacchi) al corso del proprio moto, alla direzione impressa alla propria esistenza. A tale proposito va considerata un’importante differenza tra le condotte che ricadono sotto il diritto nella fattispecie del reato e quelle che ricadono sotto gli ambiti della cura, dell’educazione, della riabilitazione nelle fattispecie dell’impotenza, della difficolta, del disagio o del sintomo. Per perseguire un reato la sua consapevolezza è auspicabile, ma non necessaria; essa è comunque presupposta dalla legge, e per cambiare direzione alla propria vita essa è indispensabile. Non si ottiene una svolta senza un soggetto che voglia svoltare, né senza un altro disposto ad aiutare e assecondare quella svolta. Che si tratti di un poliziotto, di un sacerdote, del volontario, dell’educatore o dello psicologo incontrato in carcere, ciò che è irrinunciabile è la disponibilità di un soggetto a fare posto a un altro che possa segnare lo stop a un moto inconcludente e dannoso, per iniziare un nuovo go, concludente e vantaggioso.

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