Il problema del Salone Internazionale del Libro di Torino non è che questo titolo fin de siècle risulti un po’ anacronistico (anche se è così: si tratta in realtà di una fiera, con molto buon dinamismo e una certa confusione, dovuta anche alla scarsità di personale che aiuti il visitatore a orientarsi fra i vari stand); e il problema non è che la fiera abbia anche una dimensione di rincorsa delle mode (anche se è, necessariamente, così: per esempio, le file di ragazzini in gita scolastica che marciano qua e là, come risposta alla percezione che l’editoria per ragazzi attualmente “tira”); e il problema non è nemmeno che la fiera rifletta, quest’anno come gli altri, fra una piccola rissa e l’altra, il problema della libertà d’espressione, nel sempiterno regime della cultura italiana che attraversa imperturbabile tutti i governi (anche se è così); e il problema non è nemmeno che la fiera risulti alquanto prevedibile, nei suoi bilanci ottimisti che confondono libri e quasi-libri (anche se è così, e anche questo è necessario), e il problema non è nemmanco il fatto che le alternative – le piccole fiere specializzate, le indispensabili librerie locali – esistono (anche se è così; e comunque una grande manifestazione come il Salone conserva chiaramente la sua funzione).
No, il problema è un altro (chiedendo scusa per questo linguaggio “benaltristico” tipico della moda intellettuale): si tratta di una questione – direbbe un filosofo – ontologica; come tale, tanto poco evitabile quanto poco risolvibile; e di cui naturalmente il Salone non è in alcun modo responsabile. Cioè: che cos’è un libro? Un oggetto materiale, certo: un oggetto di alto anzi artistico artigianato, che merita di durare per sempre (nonostante gli e-book e simili). Ma come oggetto non è solo un fascio di fogli rilegati e copertinati, è anche un tipo particolare di contenitore. Contenitore di parole sicuramente, ma non solo; altrimenti si ricadrebbe in un formalismo sperimentalistico ormai invecchiato. Contenitore di idee senza dubbio, ma non soltanto. Le idee infatti rischiano sempre di ricadere in ideologie; perché il libro visto come contenitore di idee evoca sempre – anche per contrasto, anche con le migliori intenzioni – lo spettro della censura.
A questo punto siamo già andati oltre il livello degli oggetti (e ridefinire il libro come “oggetto mentale” o “spirituale” non fa veramente differenza). Ogni libro infatti, indipendentemente dalla sua qualità, non è in fondo né un oggetto né un contenitore: è un campo di eventi eterogenei; e (al di là di ogni intenzione) anche una piccola esplosione. Un libro… sono i suoi effetti, posteriori alla sua lettura dunque imprevedibili e incalcolabili. Questa riflessione apparentemente astratta diveniva invece un’esperienza ben viva e sensibile nella folla che si aggirava, sospesa tra il fascino e lo stordimento, dentro il labirinto fieristico.
Il visitatore corre con lo sguardo dall’insegna della casa editrice alle copertine in fila sui banchetti, sfoglia un volume o due, ed è già pronto a muovere oltre, o punta verso il libro che la pubblicità gli ha già indicato. Ma se lui o lei sosta, anche solo per leggere una mezza pagina di un libro sconosciuto e inatteso – un libro che in qualche modo lo sorprenda – si è già (fortunatamente) perduto: nel senso che è ipnotizzato, è entrato in un’altra dimensione; rispetto alla quale tutto l’ambiente circostante è diventato quasi un fattore di disturbo.
E questo piccolo, benefico shock può anche condurre dalla lettura alla scrittura: possibile e fondamentale esperienza, soprattutto per le ragazzine e i ragazzini. In altri termini: il libro ha trasceso il libro. Ecco: se la Fiera di Torino è servita a far rivivere (nel suo fascino e nel suo turbamento) questo paradosso, ha assolto il suo compito forse più importante.
(In margine alla presentazione, al Salone Internazionale del Libro, della rinata casa editrice bolognese Marietti1820 e del Prix Clara Italia “Giovani storie in concorso” co-organizzato dall’editrice)
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