Quarant’anni fa (il 29 novembre 1980) se ne andava, all’età di 83 anni, Dorothy Day. Parliamo qui di una donna che fu una delle presenze più significative della vita sociale e culturale, e sicuramente anche ecclesiale, americana del secolo scorso. La Day seppe coniugare – a proprie spese – un radicale attivismo a favore dei poveri e un altrettanto radicale pacifismo con la piena fedeltà e sequela alla Chiesa cattolica. A proprie spese, perché il prezzo di questa appartenenza fu, da una parte, la rinuncia a una fortissima relazione sentimentale che le regalò l’unica figlia Tamar, e dall’altra l’esperienza di finire nelle carceri americane per nove volte, la prima nel 1917, l’ultima nel 1973.
Pur se la sua vita fu contraddistinta, sono parole sue, da “una lunga solitudine”, intendendo con questo sia il taglio doloroso con un’appassionante relazione affettiva, non corrisposta sul piano spirituale dal proprio compagno, sia un contrastato rapporto con Dio, specialmente nel periodo giovanile fino alla conversione alla fede cattolica del 1927, la sua vita adulta fu il compiersi di una chiara e deliberata scelta vocazionale, una risposta a una chiamata cui per lealtà e riconoscenza sentiva di dover aderire.
In quegli anni a cavallo della prima guerra mondiale ci fu un’amicizia significativa per lei, nella quale fini per specchiarsi: quella con il drammaturgo di origine irlandese Eugene O’Neill, futuro Nobel per la letteratura, un uomo inquieto e tormentato. Quest’ultimo – ricorda Dorothy nella sua autobiografia – era capace di intrattenere il loro gruppo di amici in un bar fumoso di Manhattan chiamato “Hell Hole” recitando a memoria tutto il lungo poema The Hound of Heaven del poeta inglese di fine ottocento Francis Thompson. In italiano Hound of Heaven è stato tradotto con “Il Segugio del Cielo” e questo segugio rappresenterebbe Dio, che incessantemente non da tregua a Thompson per conquistare la sua anima, nonostante egli fugga o tenti di dimenticarsi di lui o si nasconda. Mentre per O’Neill pare che questa fuga non si sia risolta in una libera e definitiva accettazione di Dio, con grande rammarico e preoccupazione di Dorothy Day, per lei invece fu il contrario. I segni del Segugio, che le si manifestavano in incontri con persone umili ma significative, le apparivano di continuo nella vita, finché lei, dopo molti dubbi e resistenze, cedette di schianto. L’ultimo “agguato” di Dio per lei fu la nascita di Tamar, vissuta come un dono immenso. Attratta già dalla Chiesa cattolica, che vedeva essere la chiesa dei poveri, prima fece battezzare la figlia Tamar, poi chiese lei stessa il battesimo per sé e gli altri sacramenti.
L’attivismo sociale e politico che segnarono da lì in poi la sua vita con la fondazione del movimento e del giornale del Catholic Worker, non furono mai un surrogato del necessario e personale rapporto con Dio nella vita di preghiera. Recita dei salmi, letture dei testi dei principali autori cattolici, recita del rosario e partecipazione alla messa furono una costante della sua vita, nonostante il turbinio di relazioni e di impegni cui l’organizzazione, da lei iniziata con Peter Maurin, la costringevano. Negli ultimi anni della propria vita Dorothy fu gratificata dalla visita di persona a New York di Madre Teresa di Calcutta, una santa che nella preghiera e nell’adorazione trovava il motore della carità. Le due donne si erano già incontrate a Calcutta nel 1970. Dorothy godette anche della stima di Paolo VI e in Italia negli anni 60 fece la conoscenza di Giorgio La Pira, di don Luigi Giussani e di Lanza del Vasto. Memore dei suoi trascorsi radicali della giovinezza, nei suoi viaggi sostò in preghiera davanti alla tomba di Marx a Londra e di Lenin a Mosca, e a quella di Dostoevskji. A New York incontrò Trotzkij e ricevette la visita di Maritain.
Il faro ispiratore dell’azione di Dorothy, trasmessa ai suoi amici incessantemente, era il riferimento al capitolo 25 del Vangelo di Matteo quando si parla del giudizio finale. “Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Sono le opere di misericordia il sigillo dell’azione di Dorothy Day.
A molti che la additavano in vita come santa rispondeva “Non chiamatemi santa!”. Preferiva essere riconosciuta come una buona giornalista e ambiva ad un buon giudizio dei suoi homeless per il caffè e le minestre che lei preparava nella sede del Catholic Worker di New York.
In poche righe non si può esaurire la ricchezza di fede e di opere testimoniateci da questa donna, che seppe in un certo senso raccogliere in America il testimone di Madre Cabrini, l’apostola degli immigrati, e che ora la chiesa riconosce “serva di Dio”, in attesa del cammino della pratica di beatificazione promossa nel 2000 dalla diocesi di New York. Per inciso anche Papa Francesco le ha tributato un esplicito riconoscimento nel 2015 davanti al Congresso americano, come una di coloro che “hanno dato forma ai valori fondamentali che resteranno per sempre nello spirito del popolo americano” (gli altri personaggi citati da papa Francesco in questa circostanza sono Abraham Lincoln, Martin Luther King e il frate trappista Thomas Merton, quest’ultimo caro amico di Dorothy Day).
Il consiglio è di leggere le sue due autobiografie: Da Union Square a Roma. Il processo spirituale di Dorothy Day (a cura di Robert Ellsberg, Libreria Editrice Vaticana, 2016) che abbraccia il periodo della giovinezza fino all’inizio del Catholic Worker, e Una lunga solitudine. Autobiografia (Jaca Book, 2002), lavoro più completo che si arresta però al 1952. Altri testi, pubblicati anche in Italia, approfondiscono maggiormente l’esperienza del Catholic Worker e sono facilmente reperibili.
Sicuramente, e per concludere, qualcuno chiederebbe oggi: “Per chi avrebbe votato Dorothy Day? Trump o Biden?”. Credo che non avrebbe votato affatto. Pare che Dorothy Day non sia mai andata a votare, memore delle sue origini anarchiche e in perenne contestazione con lo Stato fino al boicottaggio fiscale per le spese belliche e al rifiuto della coscrizione obbligatoria. Mi piace pensare che se mai ci fosse andata avrebbe annullato la scheda scrivendo “Deo Gratias”, epigrafe scritta sulla sua tomba nel Resurrection Cemetery, il cimitero cattolico di Staten Island.