“La bellezza salverà il mondo”: l’aforisma di Dostoevskij è stato ripetuto tante di quelle volte che quasi è venuto a noia, e soprattutto rischia di suonare stonato e inaccettabilmente semplicistico in tempi duri come i nostri. Forse però non sembrerebbe così fuori luogo se ci ricordassimo che, ogni volta che appare questa idea di una bellezza salvifica, essa è sempre accompagnata da tutta una serie di domande e di precisazioni che la rendono ben più complessa di quanto possa sembrare a prima vista: “Quale bellezza? – si chiede Dostoevskij con i suoi personaggi –. Perché anche i nichilisti amano la bellezza; e ci può essere una bellezza della Madonna, ma anche una bellezza di Sodoma; e queste due bellezze possono coesistere contemporaneamente nel cuore dello stesso uomo, tanto che certe volte ti verrebbe voglia di restringerlo un po’, questo cuore”.



E potremmo andare avanti così ancora a lungo, purché fosse chiaro che non si tratta qui di una questione di equilibrio, di uno scetticismo moderno che verrebbe a relativizzare un eccessivo dogmatismo tradizionalista: Dostoevskij era veramente convinto che una salvezza c’è ed è legata a quel suo Cristo di cui non esiste niente di più “bello” e di più “ragionevole”.



E qui però deve essere chiara un’altra cosa: che questa sua convinzione era tutt’altro che sentimentale, fideistica, automatica, sbattuta in faccia ai dubbiosi per metterli a tacere dall’alto di un sapere che si credeva posseduto una volta per tutte. Come noi che lo leggiamo oggi (e ce ne sentiamo ogni volta affascinati fino a sentirci suoi contemporanei e suoi compatrioti), Dostoevskij conosceva fin troppo bene la tragicità della condizione che caratterizzava il tempo e il paese in cui viveva per avere questa stolta pretesa di poter dominare qualsiasi cosa e per non lasciare invece spazio ad altro o, meglio, a un Altro. Dostoevskij conosceva bene la crisi che attanagliava lo Stato, la Chiesa e la società russa, ed è bene che anche noi ne abbiamo una qualche idea se vogliamo capire l’eccezionalità della sua posizione.



La crisi dello Stato era quella di un paese che si presentava forte e capace di resistere a ogni attacco: in fondo, si pensava, non poteva essere per caso se la Russia aveva determinato la politica della restaurazione successiva alla Rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche. In realtà, invece, quello stesso Stato cominciava a non saper rispondere al nascente movimento terrorista se non con una repressione cieca, alla quale corrispondeva nella società non il senso di una responsabilità nei confronti del bene comune o del dovere di ricostruire uno stile di convivenza in cui quel concetto avesse un senso, ma un relativismo che avrebbe finito per distruggere tutto. Come avrebbe detto molti anni più tardi uno dei più acuti commentatori russi di Dostoevskij, Semën Frank, ricordando il proprio arresto per la partecipazione a un movimento rivoluzionario e ricordando come uno dei suoi compagni si fosse suicidato in prigione, dandosi fuoco, perché si era convinto che non sarebbe mai diventato un “buon rivoluzionario”, “allora noi utilizzammo quel suicidio per mostrare l’orrore delle carceri zariste, senza preoccuparci del destino di quel nostro amico e senza renderci neppure lontanamente conto di cosa doveva essere successo nell’anima di quel nostro giovane compagno che si era suicidato perché temeva di non essere all’altezza di un’idea”.

Non meno grave era la crisi della Chiesa, un organismo, apparentemente, altrettanto potente dello Stato, e comunque onnipresente, che dettava con le sue feste e le sue processioni il calendario della vita civile e che prevedeva, ad esempio, la prescrizione (universalmente rispettata) della confessione annuale per i pubblici ufficiali; in realtà, invece, la situazione era ben diversa, tant’è che nel 1916, quando l’esercito imperiale toglierà quest’obbligo, nel giro di un anno, la percentuale della frequenza al sacramento passerà dal 100% al 10%; come avrebbe detto un grande amico di Dostoevskij, Solov’ëv (parlando di se stesso prima del suo ritorno alla Chiesa e per spiegare perché studiasse le scienze naturali), era evidente che in queste condizioni “i mostri antidiluviani erano molto più affascinanti di un catechismo antidiluviano”; e del resto lo stesso Dostoevskij, quasi alla vigilia della morte, continuava a ripetere che il cristianesimo non insegna a fare gli esami di catechismo ed è piuttosto la coscienza della persona di appartenere al Signore della vita.

Ecco il punto: se Dostoevskij era certo della salvezza, era proprio per il fascino che questo Cristo, Signore della vita, esercitava su di lui al di là di ogni crisi.

La certezza non veniva da quello che poteva ideare lui o che lui poteva “mettere in scena” (secondo l’acuta formulazione che dà il titolo al bel libro di Vincenzo Rizzo), ma da qualcosa d’altro.

L’altro elemento importante per capire l’eccezionalità di Dostoevskij e anche la sua grandezza d’artista è proprio questo rifiuto dell’idea, il rifiuto di ridurre tutto a un’idea che sostituisce la realtà. L’idea può essere cattiva, com’è per Dostoevskij il relativismo che riconduce il dramma del male al puro “condizionamento ambientale” o come è per lui la riduzione della coscienza a un puro biologismo o anche solo “la riduzione della domanda sul senso della vita alla sola etica”; e in questo caso è evidente che Dostoevskij non può accettare queste posizioni per lui sbagliate, ma il fondo della questione non sta qui, bensì proprio nell’idea in quanto tale. L’idea può anche essere buona e giusta, ma perde questi suoi caratteri se non è ordinata a far entrare in scena, a far agire nella storia, in tempi e luoghi diversi, ciò che la rende buona e giusta. Il male del socialismo ateo, per Dostoevskij, non consisteva innanzitutto nel fatto che negasse Dio, ma nel fatto che lo aveva trasformato in un’idea, difendendo magari ancora le idee di Cristo (l’umanitarismo), ma senza più Cristo, anzi avendo programmaticamente negato Cristo o avendo preteso di poter prescindere da Lui; per usare un’espressione che si trova nell’Adolescente, il socialismo ateo, le cosiddette “idee ginevrine”, sono “la virtù senza Cristo”.

Il problema per Dostoevskij non era innanzitutto la difesa della religione, ma la difesa della realtà: questa era la salvezza che per lui doveva venire dalla bellezza. E la bellezza non era allora una vaga fantasia romantica, ma la percezione di una realtà, sorprendente perché non fatta dalla prevedibilità della mano dell’uomo, ma non meno umana perché comunque non poteva essere neppure vista senza la disponibilità dell’uomo a guardarla, a vedere lei piuttosto che i fantasmi creati dalla sua fantasia.

Venerdì 14 gennaio alle ore 17 il libro di Vincenzo Rizzo Dostoevskij. La salvezza in scena (Jaca Book, 2021) sarà presentato in zoom a cura di Prologos. Ne discuteranno con l’autore Gianfranco Dalmasso e Adriano Dell’Asta. ID riunione e passcode su: www.prologos.it.

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