“Signora Del Grossi, tenga il telefono sul comodino. Purtroppo suo marito potrebbe non superare la notte. Il quadro clinico continua a peggiorare (…) Potrebbe essere questione di ore”. È la sera del 31 marzo 2020. La pandemia non ha ancora raggiunto in Italia il tragico bilancio delle settimane e dei mesi a seguire, ma si contano già (dati del giorno prima) 101.739 contagi e 11.591 vittime. Poco più che cinquantenne, ingegnere, Alberto Del Grossi, che vive in Brianza con la moglie Chiara Perrone e i tre figli Tommaso, Matteo e Giacomo, fino a un mese prima godeva di buona salute e percorreva in auto fino a mille chilometri la settimana per il suo lavoro, facendo la spola tra Lombardia e Piemonte. Poi, il 13 marzo 2020, scopre di essere positivo. All’inizio, lievi sintomi che sembrano poco preoccupanti. Poi il rapido aggravarsi e l’avvio di un duro calvario, in due ospedali di Monza e poi in riabilitazione a Carate: dal pronto soccorso al reparto Covid, a quello degli infettivi e infine in terapia intensiva. Prima la Cpap (il casco che immette aria a pressione costante), poi l’intubazione, il coma farmacologico, l’embolia polmonare, il cuore che non ce la fa più, al punto di dover ricorrere alla circolazione extracorporea. Una dottoressa che lo cura riconosce: “La sua vita è appesa a un filo”.
La mattina del 1° aprile la moglie Chiara, che è medico, manda un messaggio a tutti gli amici: “Alberto sta morendo”. In realtà il marito, che ha superato quella notte, supererà in modo insperato anche quelle successive. Il 7 aprile si presenta però una seria complicanza, ma il filo non si spezza e il paziente rimane stabile. C’è un nuovo allarme l’11 aprile per uno shock settico che potrebbe causare gravi conseguenze, ma anche questa situazione critica si risolve. Il 12 aprile è Pasqua, finalmente Alberto è di nuovo stabile, e si fa più concretamente strada la speranza. Risponde alla terapia antibiotica. Poi un crescendo di buone notizie. Il 20 aprile non serve più la circolazione extracorporea e tre giorni dopo viene rimosso il ventilatore: Alberto non è più intubato. Così il 25 aprile può essere trasferito alla pneumologia sub-intensiva. I valori sono tornati normali e comincia la riabilitazione, con sedute progressive di fisioterapia. Il 19 maggio 2020, dopo due mesi di sofferenze, arriva il gran giorno del ritorno a casa, dove l’attende una festa a sorpresa. I medici raccomandano prudenza e riposo fino a settembre, ma il 10 giugno Alberto è già al lavoro: si sente bene e vuole riprendere la sua vita di sempre. I controlli a sei mesi e a un anno confermano: tutto ok. Ma com’è potuto accadere questo “miracolo”, che ha stupito anche il personale medico che l’ha seguito?
“Preghiamo con tanta fiducia… Alle 15.30 abbiamo l’ora nona e il Rosario sarà abitato da questa intenzione”. Già il 20 marzo 2020 le clarisse del Monastero di Santa Chiara di Nardò (Lecce), su richiesta di Andrea, il fratello maggiore della moglie di Alberto, cominciano a pregare. Sarà un’orazione incessante. Il 30 marzo: “Restiamo in preghiera con voi chiedendo al Signore la sua grazia di guarigione”. Il 2 aprile: “Continuiamo a bussare al Cuore di Dio con umiltà e fiducia… Lui ama Alberto più di noi”. Il 23 aprile, quando si intravede la luce in fondo al tunnel: “Ringraziamo il Signore per quanto sta operando nella certezza che compirà la sua opera”. Partecipano alla preghiera di intercessione anche le suore di clausura del Monastero delle Clarisse Sacramentine a Novaglie, in provincia di Verona (“Più fitte sono le tenebre più grande deve essere la nostra fiducia”), il Guardiano dei Frati Francescani di Betlemme, padre Enrique, una suora africana del Benin (“Il miracolo avverrà con la Grazia di Dio”). È vicino ad Alberto e prega per lui il giovane sacerdote e amico don Giacomo, della parrocchia dei SS. Pietro e Paolo a Lissone, come pure don Roberto, dal Messico (“Viviamo questo momento con speranza, certi della fede che Dio ci ha dato”).
È una catena, meglio una corona, di partecipazione viva – giusto definirla “virale” – che si allarga a vista d’occhio. Pregano decine, centinaia di altri sacerdoti e laici sparsi per tutto il mondo, molti dei quali neppure conoscono l’ingegnere brianzolo in così grave pericolo di vita. Mossi da una comunione fraterna e uno slancio di misericordia. Gli studenti del Politecnico compagni dei figli, sono 150!, si collegano ogni sera per recitare il Rosario per lui. In 250 sono gli amici della Brianza della famiglia Del Grossi che fanno la stessa cosa. “Affidiamoci al Signore sempre di più nella certezza che tutto è per un bene più grande”. Così scrive Chiara quando il marito è ormai fuori pericolo, sicura della guarigione e grata perché le sue preghiere e quelle di una schiera così numerosa di persone è stata ascoltata. Alberto è stato affidato all’intercessione di San Giuseppe Moscati, di San Riccardo Pampuri e del Servo di Dio don Luigi Giussani; un amico infermiere mette l’immaginetta di quest’ultimo sul cuscino del malato. C’è anche una speciale vicinanza da Lassù: le gemelline Benedetta e Francesca, nate il 6 aprile 1997 e subito volate in Cielo. “Angeli Custodi che sono accanto al loro papà e fanno il tifo per lui”, scrive sempre Chiara su WhatsApp.
Proprio Chiara si assume il compito di tenere puntualmente informati del decorso ospedaliero di Alberto i parenti e tutti coloro che pregano perché guarisca. Ogni messaggio inizia con l’espressione “Eccomi!”; diventerà il titolo del libro. “Eccomi!” sta a significare sia “son qui ad informarvi, ad aggiornarvi”, sia “sono pronta Signore ad accettare la tua volontà”. Questa parola è anche la chiave per capire come anche Papa Francesco abbia espresso indirettamente apprezzamento per il volume e soprattutto interesse per la significativa testimonianza che vi è raccontata. Una copia del libro era stata consegnata a Bergoglio da un nipote di Alberto pochi giorni prima dell’apertura del Meeting di Rimini. Il messaggio ai partecipanti del Pontefice, che fa riferimento anche alla pandemia, si conclude così: “Davanti alla malattia e al dolore, di fronte all’emergenza di un bisogno, molte persone non si sono tirate indietro e hanno detto: ‘Eccomi’”.
Cosa resta ad Alberto di questa esperienza? “Ho imparato ad affidarmi”, dice. “E ho imparato che ogni giorno è donato”. Com’è un dono alla sua famiglia il profumato risotto che è sempre stato la sua specialità: l’ultima cosa cui ha pensato prima di cadere nel sonno della sedazione. E che è tornato a cucinare con gioia.
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