Antonella Orefice, con Eleonora Pimentel Fonseca (Salerno editrice, 2019) ricostruisce non solo la vita dell’eroina della Repubblica napoletana del 1799, ma anche lo scenario politico, sociale e culturale in cui si inserisce l’esistenza di questa sfortunata e coraggiosa donna, antesignana delle rivendicazioni femminili del Novecento.
Nata da famiglia di origine portoghese, ricca di nobiltà ma povera di risorse economiche, Eleonora visse gli anni emozionanti del fermento intellettuale di cui fu protagonista la Napoli del XVIII secolo, città che era tra le capitali dell’Illuminismo europeo, se guardiamo ai frutti del ceto intellettuale, ma che aveva anche innumerevoli problemi, soprattutto in ordine al pauperismo. Quando finalmente, con Carlo di Borbone, dopo secoli di governo da parte dei viceré spagnoli, Napoli divenne nuovamente capitale del regno, essa divenne tappa irrinunciabile del Grand tour degli intellettuali europei: alle meraviglie del suo cielo e del suo golfo, la zona aveva infatti aggiunto anche i tesori riemersi dagli scavi di Ercolano e di Pompei, cui proprio Carlo aveva dato impulso.
Questo sovrano, nato a Madrid nel 1716, primogenito di Filippo V, divenendo re di Napoli riportò la monarchia in città dopo 230 anni: fu un periodo di riforme e di fermento intellettuale, anche se sempre sotto il controllo di Madrid; ma nel 1758 Carlo di Borbone fu richiamato in Spagna per succedere a Ferdinando VI, che, dopo la morte della moglie, era uscito di senno per morire un anno dopo. Poco prima di imbarcarsi sul vascello Fenice, il sovrano, che avrebbe preso il titolo di Carlo III di Spagna, trasmise la corona al figlio Ferdinando, terzo tra i sei maschi dei tredici figli nati dal matrimonio con Maria Amalia di Sassonia.
Con lui, che salì al trono con il nome di Ferdinando IV, i napoletani ebbero finalmente un sovrano nato e cresciuto in città, per la precisione nato a Palazzo Reale nel 1751 e incoronato re a soli otto anni. Ferdinando avrebbe regnato per sessantasei anni; ma rispetto allo spessore del padre, egli fu decisamente impari: senza alcuna inclinazione alla cultura, e di gusti grossolani e popolareschi, fu noto come il “re lazzarone”, dedito solo ai piaceri della caccia e alieno da ogni interesse intellettuale; senza dimestichezza con la lingua italiana, era solito esprimersi nell’idioma locale; caratterialmente avido, imbelle, vile nel pericolo e vendicativo nella vittoria, egli fu, soprattutto, un despota spergiuro. Come stride questa figura con il carattere di Eleonora!
Ella, già bibliotecaria della regina, intellettualmente vivace, frequentatrice dei salotti letterari, fu però costretta nel 1778 al matrimonio con il tenente dell’esercito borbonico Pasquale Tria de Solis. Gli amici di famiglia, che conoscevano e condividevano gli interessi e le aspirazioni intellettuali di Eleonora, dissentivano; ma la ragazza aveva già passato i ventisei anni, età allora veneranda per una nubile, condizione disagevole per una donna del suo tempo, che solo nell’ambito del legame matrimoniale poteva assicurarsi decoro e una certa tranquillità materiale. Il legame con Tria fu infelice sin dall’inizio, a partire dalla decisione del marito di portare nella casa coniugale le sue quattro sorelle nubili, troppo diverse da Eleonora per poter minimamente apprezzare o capire le doti e le inclinazioni della cognata. Non solo Tria si rivelò crudele e violento, di una gelosia morbosa e gretto nei comportamenti, ma scialacquò senza remore i beni della moglie, e persino la costrinse a convivere sotto lo stesso tetto con la sua amante, dalla quale ebbe anche una figlioletta.
Eleonora si risolse così a chiedere la separazione: il faldone dei documenti, miracolosamente salvatosi dalle incurie del tempo e dai massacri di documenti d’archivio, ci restituisce la miserevole vita coniugale di Eleonora, che, allentato il legame con Tria, tornò alla pienezza delle sue attività intellettuali, sostenuta dagli amici, che ne condividevano le aspirazioni, e che costituirono quel ceto di illuminati pensatori destinato a venire decimato dalla repressione della Repubblica nel 1799.
Di fronte al bagno di sangue (oltre 13mila giustiziati) voluto da Ferdinando e dalla moglie Carolina, regina dalla grande influenza sulle decisioni del marito, figlia di Maria Teresa d’Austria e sorella di Maria Antonietta di Francia (e che pertanto vedeva la Rivoluzione come il fumo negli occhi, dopo la fine miseranda della sorella sulla ghigliottina), e di fronte al racconto della dignità serbata da Eleonora sino all’ultimo, fa impressione leggere le annotazioni dal Diario Segreto del sovrano, in corrispondenza della data del 20 agosto 1799, giorno dell’esecuzione della Fonseca Pimentel:
“Dormito malissimo, alzatomi alle sei, vestitomi, intesa la Santa Messa, dato il buon giorno a mia moglie dalla quale sono stato mal ricevuto. Applicato. Alle nove fatto il Consiglio, terminato il quale mia moglie, che era venuta in modo da piacermi, ha voluto abbordarmi al suo solito per terminarla; ma … è partita come una furia. A mezzogiorno preso il bagno, pranzato, riposato fino alle tre, applicato. Alle quattro venuta mia moglie con buone maniere a parlarmi per tutto, si è terminato quietamente. Alle cinque e mezza andato a fare una trottata con Ascoli ai Colli … fatto Consiglio, alle dieci preso un boccone e a letto. Tempo di scirocco caldissimo”. Un giorno di normalissima e squallida tetraggine, insomma, in cui Ferdinando, dalla quiete palermitana (i sovrani rientreranno a Napoli solo nel 1802) nemmeno immagina che cosa stia accadendo nella sua capitale.
Chiude l’appassionato e appassionante volume il capitolo X, “Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo”, che rievoca, fra l’altro, “il mistero della tomba scomparsa”: qui si ipotizza, fra l’altro, con una ricca messe di documentazione storica, una possibile collocazione per i resti mortali di Eleonora. Come conclude l’autrice, la speranza è stata quella di restituire al lettore, al di là della lontananza spazio-temporale, una Eleonora se non “vera”, almeno vicina a quella vera, in tutta la sua complessità.