Chi ha letto Wuthering Heights (Cime tempestose) ne conserva un ricordo fatto di atmosfere: un personaggio demoniaco come Heathcliff, il trovatello umiliato e offeso che volge in vendetta il suo bisogno d’amore; il suo tormentato rapporto con Catherine Earnshaw e soprattutto, il vento aspro sulle brughiere macchiate di erica selvaggia dello Yorkshire. Pochi scrittori come Emily Brontë si identificano completamente con il paesaggio nel quale vissero: sembra impossibile immaginarla al di fuori di quelle stanze della canonica di Haworth e i limitati dintorni, in cui si consumò quasi tutta la sua breve vita (1818-1848).



Ne stende ora un accuratissimo ritratto l’anglista Paola Tonussi, frutto di vent’anni di studi appassionati e rigorosi: Emily Brontë, edito da Salerno, da poco in libreria. Scrivere di Emily vuol dire scrivere di tutta la famiglia Brontë: dal padre, vicario perpetuo del villaggio; dalle sorelle, anch’esse scrittrici: Charlotte – autrice del famoso romanzo Jane Eyre; Anne, a cui si deve il meno riuscito Agnes Grey; all’unico fratello Branwell, brillante e dissipato, che prestò qualche tratto a Heathcliff. Come intuì Marina Cvetaeva, con i fratelli la geniale Emily creò “un arcipelago di cuori”, un unicum affettivo e artistico.



Tonussi segue i passi di Emily con discrezione, rispettandone il mistero; la libera dai lacci dell’interpretazione ingenua e sentimentale, proposta subito dalla sorella Charlotte, che ne custodì il mito, ma volgendolo in direzione edulcorante, più facilmente digeribile da pubblico e critica. Ci accade invece di condividere il giudizio di un anonimo recensore che, all’indomani della pubblicazione di Wuthering Heights, scrisse: “Affascinati da una strana malia leggiamo quanto non ci piace, c’interessiamo a personaggi assolutamente rivoltanti, soggiogati dall’immensa forza del libro… ne siamo stregati, non possiamo che leggere”.



Scrive Tonussi che Wuthering Heights non è un’opera di “immaginazione romantica, bensì di scomposizione e frammentazione allusiva”. Elaborato in un clima di solitudine pressoché totale, fatta eccezione per i contatti con i familiari e i domestici e per i brevi e fallimentari periodi trascorsi fuori di casa, il romanzo vive di una forza allucinata e fantastica, esito di un’impressionante immaginazione. Emily viveva in una bolla, estranea tra gli altri esseri umani, con un senso di isolamento che può ricordare solo Kafka o l’altra famosa Emily della letteratura ottocentesca, la Dickinson, giustamente evocata dalla biografa.

Ad alimentare la leggenda, vi fu lo stratagemma degli pseudonimi: le tre sorelle Brontë, per pubblicare i loro scandalosi libri nell’Inghilterra vittoriana di metà Ottocento, si nascosero dietro tre nom de plumes maschili: rispettivamente Currer, Ellis e Acton Bell. Si può immaginare che l’espediente, che oggi apparirebbe il risultato di una raffinata strategia commerciale, non dispiacque molto ad Emily: anzi, fosse stato per lei, forse non avrebbe nemmeno pubblicato. “Scrivere è per lei un atto essenzialmente privato che esclude la condivisione”, afferma Tonussi. Lo fece, in realtà, assecondando le forzature di Charlotte, con la quale, per questo motivo, ebbe un diverbio che incrinò i loro rapporti.

Eppure, Emily si muoveva con sicurezza e perfino ilarità nel suo mondo: le mani che scrissero Cime tempestose sono le stesse che sbrigavano i lavori domestici, spettanti a una signorina di modeste condizioni della provincia inglese della sua epoca: spazzare la cucina, cucinare meravigliosi pudding, accudire gli amatissimi animali, fra cui le oche e il carissimo cane Keeper; e, negli ultimi anni, era colei che sorreggeva il fratello Branwell, ebbro e barcollante all’uscita di qualche squallida taverna.

Ma al di fuori di quelle colline, tutto era inferno e desolazione, come per i personaggi di Shakespeare in esilio. Heathcliff non conosce il suo passato, è fuori del tempo, come un’infanzia perduta e sospesa. “Le sue colline native erano più di uno spettacolo per lei; erano ciò in cui e di cui viveva”, ha scritto Charlotte della sorella. Scrivere per Emily era dialogare con un’assenza e il suo è un romanzo di sottrazioni, di perdite e di nostalgia per un “Dio delle visioni” lontano da ogni teologia codificata. Questa è la sua grandezza: aver generato un universo chiuso, metafora di una vita senza uscita, un mondo unico e inconfondibile. “Wuthering Heights è l’espressione della ‘differenza’ fuori da ogni norma dell’autrice, e del bisogno umano e universale d’amore. Heathcliff ne è il centro, il pianto violento per la sua assenza”, scrive ancora Tonussi. Per questo il romanzo è un grido a un’entità nascosta: “Non so spiegartelo; ma c’è, o ci dovrebbe essere, un’esistenza che va al di là da noi. A che scopo esisterei se fossi interamente contenuta qui?”, dice Catherine nel romanzo.

Come Emily Brontë si identificava con i suoi personaggi, Paola Tonussi si identifica con la scrittrice amata. Leggendo il suo libro, si resta colpiti dal fatto che tutti i verbi usati sono all’indicativo presente. Presente come Emily, perché “Emily sussurra al nostro orecchio l’aspirazione alla felicità e il fuoco delle paure”. ‘Con le dita sporche / d’inchiostro, sorregge mondi illimitati” ha scritto Rosie Garland. E quei mondi illimitati, Emily Brontë ha saputo annodarli alla terra mortale e farcene dono, quel dono oggi raccontato da Paola Tonussi.