La Bellezza non ha causa:
esiste.
Inseguila e sparisce.
Non inseguirla e appare. 

Sai afferrare le crespe
del prato quando il vento
vi avvolge le sue dita?
Iddio provvederà
perché non ti riesca.

Questa breve lirica scritta da Emily Dickinson attorno al 1862 sferra pur nella sua esilità un colpo notevole a tutta la retorica della bellezza che pervade il nostro mondo. In sintesi parla della Bellezza inafferrabile, quasi incorporea, come il vento che increspa l’erba dei prati. Chi voglia prenderla è destinato a perderla, perché essa ha la sola caratteristica di esserci, e basta.



Quale vigorosa concezione si cela dietro i brevi versi, la semplice sintassi, il lessico quotidiano. La poesia tocca quasi la metafisica.

Quale disarmonia con l’uso che, da Narciso in poi, ne hanno fatto gli uomini. Non solo i poeti che, forse tra i più innocenti, l’hanno cantata, rimpianta, illusoriamente raggiunta nella perfezione delle loro opere. Non solo i critici che si sono indaffarati a definirla, a sezionarla. Non solo i mercanti, che si sono impadroniti delle sue spoglie per venderla a caro prezzo, a buon prezzo. Non solo i filosofi che ne hanno fatto un’astrazione.



Ma anche chi l’ha sporcata con la teoria e con la pretesa di salvare con essa il mondo, gli avventurieri e i rivoluzionari, i moralisti e i frodatori. Chi non ama il silenzio e l’umile luce della vita quotidiana, del dovere compiuto con dedizione, dell’amore generoso verso i piccoli non può godere del suo sommesso avvicinarsi a sfiorare l’azione umana più ripetitiva e nascosta.

La Bellezza non ama essere appariscente, si accontenta di essere. Per questo si sottrae ad ogni forma di possesso. È casta ma non per questo incorporea. Giunge a noi non attraverso le vie astratte dell’intelligenza, ma quelle concrete dei sensi e li avvolge di fragranza fino a elevarli nella limpidezza.



Al di là del linguaggio poetico della Dickinson non è forse esperienza provata almeno un momento della vita questo presagio di bene duraturo?