È inesauribile, nel cammino umano, la ricerca di un senso, di un nesso fra gli istanti che intessono l’esistenza che sarebbe altrimenti polverizzata, dispersa nella dimenticanza. L’uomo non può sopravvivere nell’inconsistenza, privo di una storia che gli riveli il legame profondo con la realtà, con il tempo e lo spazio, con il passato e il futuro. Erik Varden, monaco trappista e vescovo-prelato di Trondheim, in Norvegia, nel suo libro La solitudine spezzata (Edizioni Qiqajon, 2019) ripercorre il proprio cammino esistenziale mettendo in luce come, nella trama di vicende che segnano l’esperienza, un fatto inaspettato possa schiudere un orizzonte promettente.
Non manca mai un richiamo, un episodio, un incontro che, impresso indelebilmente nel cuore, non riesca a suscitare in modo imprevisto una novità di prospettiva, o meglio, una rivelazione che risveglia l’attesa, muove alla ricerca di un senso. Decisivo è trattenere il “ricordo”, come fu per lui, ancora bambino, di fronte a un racconto di suo padre che un giorno, a tavola, raccontò di aver visto un uomo che raccoglieva il fieno a torso nudo mostrando sulla pelle i segni di cicatrici conseguenti alle torture patite negli anni di prigionia in Germania, durante la guerra. Quei segni delle fustigazioni subite, di solito nascosti, furono come un’involontaria confessione: “Nessuno aveva premeditato quel resoconto… L’immagine delle cicatrici, però, rimase impressa nella mia mente. Era come se il dolore del mondo fosse entrato, tramite loro, nel mio universo protetto che ne era rimasto distrutto”.
Quel fatto inquietante aprì in lui una ferita suscitando esigenti domande sul “potenziale immenso dolore” che incombe sulla vita umana, spingendolo a cercare barlumi luminosi nella letteratura e soprattutto facendogli avvertire la ricerca della verità come una questione seria, un compito inesorabile. “C’erano giorni in cui questa consapevolezza mi schiacciava. Eppure, se non l’avessi acquisita allora, avrei potuto non accorgermi della luce che prese a splendere all’improvviso in ciò che mi sembrava un’oscurità senza stelle”. Fu la musica di Mahler a far scoccare una scintilla nel buio, a demolire un istintivo disinteresse per la fede accostata solo nell’impatto con “studiate certezze dei predicatori” poco convincenti. Una registrazione di Leonard Bernstein, la sua seconda sinfonia, Resurrezione, fece vibrare il suo cuore: “Prima che l’incredulità avesse tempo di configurarsi, era attenuata da voci che cantavano una speranza… Abbi fede, mio cuore, abbi fede: nulla è perso per te… Abbi fede: tu non sei nato invano. Non hai vissuto né sofferto invano”. Una certezza investì il suo cuore: “…seppi che c’era qualcosa dentro di me che andava al di là dei limiti della mia persona. Fui cosciente di non essere solo”.
Un avvenimento, un fatto concreto, aveva inciso un segno nelle fibre dell’anima diventando la stella polare del cammino che si sarebbe compiuto nella riscoperta della fede e della Chiesa cattolica che “poteva indirizzare e purificare sia il dolore che il mio desiderio”. Impressiona la tangibilità dell’infinito e dell’eterno attraverso le contingenze segnate dalla contraddizione, dal buio, dal dolore, sempre paradossalmente attraversati e ricongiunti alla luce e alla gioia, al compimento offerto da Dio incarnato: “essere monaco è abitare un universo senza limiti”. Di questo universo raccontabile, intessuto in un’esperienza che si rinnova nella consapevolezza del “ricordo”, Erik Varden ci fa dono delineando il travaglio avventuroso dell’uomo alla ricerca del proprio volto, attraverso una varietà di espressioni e testimonianze, attingendo alle pagine della Bibbia, a testi di letteratura antica e moderna, all’approccio con vicende di uomini e donne assetati di verità e di bellezza.
Sono continue le suggestioni illuminanti del libro che trattiene il lettore su pagine ricche di insegnamenti, riflessioni e intuizioni palpitanti di verità, capaci di un pensiero e un giudizio mai disgiunti dalla dimensione esistenziale. Fra le numerose testimonianze di umanità travagliata e redenta, quella di Maïti, sottoposta ad atroci torture da un medico durante il nazismo, spalanca lo sguardo su una vertiginosa esperienza di perdono. Le violenze dalle conseguenze irreparabili stroncarono il suo sogno impedendole per sempre di suonare il pianoforte, eppure la grande preoccupazione per Maïti era di perdonare. Pregò perché questo avvenisse e il suo intento nascesse dal profondo del suo cuore, ma comprese che “perdonare non avviene in modo astratto; richiede la presenza di qualcuno a cui il perdono possa essere indirizzato, qualcuno da cui possa essere ricevuto”.
Accadde che il suo aguzzino, che non aveva mai dimenticato le atrocità commesse sul corpo della giovane donna che gli aveva parlato dell’eternità, a distanza di 40 anni ormai sull’orlo della morte, si fece vivo per chiederle se quelle sue parole erano vere e se fosse possibile incontrarla. Maïti acconsentì e quando il visitatore si chinò su di lei, sdraiata su un divano per il forte dolore, essa prese la sua testa fra le mani e lo baciò sulla fronte. “Era stato un gesto, affermò più tardi, che non era premeditato ma che “non avrebbe potuto non accadere”. Dopo aver visto il proprio perdono confermato, “una persona non è più la stessa”. Abbiamo la testimonianza che il suo visitatore era cambiato allo stesso modo.
Questo episodio, una delle tante tessere del mosaico che descrive il drammatico travaglio della vita umana lambita, o forse meglio inondata, dalla grazia divina, riflette bene il messaggio di Erik Varden attorno all’abissale solitudine umana, spezzata e sconfitta dalla presenza di Dio. Il suo è un racconto di redenzione che collega tutti gli istanti del tempo e li rende memoria che travalica il tempo contingente: “Il nostro ricordare non è mai confinato alla sola esperienza, limitata o ampia che sia” avverte. “Noi scopriamo – se osiamo – che la memoria è più che un’acqua stagnante di ricordi privati. Ricordare, ricordare veramente, è levare i nostri ormeggi e salpare verso il mare aperto”.
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