Matematici, fisici e geometri hanno sempre apprezzato l’arte dell’incisore olandese Maurits Cornelis Escher (1898-1972): poligoni, simmetrie, proiezioni, proporzioni. Una costante composizione lineare ordinata a una precisione per nulla nemica del risultato estetico. Senonché, nei cromatismi e nelle figure, quelle opere non possono non trasmetterci anche un profondo senso di inquietudine: le tonalità che ci si aspetta dal pittore Titorelli nel Processo di Kafka più che la lucentezza euclidea. Le scale di Escher non ascendono verso tinte paradisiache: sprofondano invece verso un Ade ignoto e tutto umano. Al momento su quelle scale sembra esserci la giustizia italiana, ancora incerta sulla direzione che prenderà: se pronta a salvarsi scappando dal quadro in un generoso trompe-l’oeil o, piuttosto, inesorabilmente pronta a infossarsi ancora.
L’ultimo governo ha fatto da ponte verso una poderosa riforma omnibus del sistema: la riforma Cartabia. Il bello (o il brutto) è che ancora prima di diventare legge la riforma già scontava l’umoralità della politica nel suo recepimento, prima ancora cioè di qualsiasi considerazione tecnica ed eventuale correzione testuale. La riforma nasceva nel contesto di un mandato amplissimo, nel periodo in cui il governo che se la intestava sembrava in luna di miele non tanto e non solo con gli italiani, ma anche e soprattutto con una più generica (e forse più interessata) platea internazionale e di specialisti.
Sbloccare la giustizia sarebbe dovuto servire a molti fini. Gli spalti liberal, ad esempio, avrebbero apprezzato le depenalizzazioni e le misure orientate a risolvere il tradizionale problema dell’inumano sovraffollamento carcerario. Fonte, calcolatrice alla mano, di condanne sontuose, reiterate e altisonanti contro l’Italia.
E la riforma veniva finalmente resa obbligata dalla necessità di competere per i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Una giustizia in forma è una esigenza per stare con dignità, efficacia e competitività sui mercati: gli investitori hanno bisogno di meccanismi trasparenti, vogliono sapere quale sistema tratterà le loro controversie, quanto tempo occorrerà – e con che strumenti decisionali – per una decisione, appunto, di giustizia. Si tratta di un indice persino più incisivo della criminalità (la cui capacità di ingresso nel capitale lecito certamente spaventa, non solo noi, ma anche chi “caccia i quattrini”) e del costo del lavoro. Il mondo del lavoro incute timore sia in chi investe, sia in chi un lavoro cerca o trova non dal punto di vista del suo costo materiale – in Italia la frazione che riguarda la retribuzione è già bassa, andrebbe invece stimolata, non solo ai fini della domanda interna, verso l’alto. La verità è altra: è che il lavoro è tormentato da una burocrazia infernale le cui parti più tediose sono fuori dal contratto (quello collettivo e quello individuale). Qual è l’alternativa, se non una precarietà di massa, almeno percepita e spesso vissuta? Un indice del genere non garantisce protezione sociale, assolvimento della spesa pensionistica e nemmeno fa gola a chi in Italia voglia impiantare reti aziendali.
Vieppiù, l’ambiziosa riforma lasciava e lascia fuori, o lambendoli o non incidendoli o ignorandoli, aspetti e profili che ci pare abbiano ricadute ancora peggiori – ad esempio la composizione degli organi e i metodi, anche costituzionali, della loro elezione, come il Consiglio superiore della magistratura. Checché se ne sia detto da decenni, non sono solo le “correnti della magistratura” ad agire sulla politica: è purtroppo ancor più spesso vero il contrario. Che i meccanismi di cooptazione negli organi apicali andrebbero emendati, aperti, sottratti all’area di influenza delle forze politiche.
Tutto questo nella riforma non c’era e nessuno avrebbe consentito che vi fosse. La luna di miele non è finita però per demeriti redazionali, e pure non ci sono state consegnate le soluzioni migliori tra le tante alternative che nelle bozze preparatorie in un primo tempo ci si sarebbero poste all’occhio. Si è conclusa perché è iniziato un opportunistico revisionismo sul governo Draghi: i gruppi parlamentari continuano su alcune scelte di fondo a starne silenziosamente nel solco, incapaci di produrre alternative, su tutto il resto giocano a fare discontinuità confusa che è peggio di una continuità pedissequa.
La giustizia italiana lamenta due problemi molto più radicati e radicali del riformismo legislativo sulle decine di articoli dei codici: la formazione e la dotazione. Quanto alla prima, grossa riflessione spetterebbe alla classe forense e forse anche a quella accademica, perché temi e istituti di nuova generazione restano privi di una risposta normativa (dalle intelligenze artificiali al diritto migratorio, passando per la crescente domanda etica in economia e finanza). Riguardo alla seconda, non si speri certo di arrivare a scorciatoie con infornate periodiche: il contenzioso va ristrutturato, semplificato, “capillarizzato”, altrimenti resterà eternamente congestionato.
In caso contrario, tornando ad Escher, non avremmo sotto gli occhi la bellezza di una Costiera amalfitana chiara e pulita: ci troveremmo catapultati piuttosto nei dedali e negli strapiombi di una casa di scale, molto simile a galere e segrete del periodo del terrore.
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