Sui grandi classici della letteratura antica sono stati fatti due errori non da poco. Da un lato si è ritenuto che tutti potessero parlarne da qualunque punto di vista, ivi compreso quello della scienza filologica ed ermeneutica, che invece è giusto resti a chi vi appartiene. Dall’altro, questa atecnica voglia di intervenire fungibilmente su tutto ha paradossalmente prosciugato la nostra conoscenza letteraria, il canone essenziale di cultura generale che sarebbe preteso dal nostro orizzonte di cittadinanza. Qui riteniamo invece che il classico sia fondamentale, che vada sezionato da chi lo studia e che tutti, leggendolo, possano riflettervi su.
Il tragico greco ha pesantemente subito nella nostra percezione collettiva entrambi questi processi: la semplificazione estrema, quasi banale, che non ha fatto decollare una padronanza parimenti collettiva di quei temi e sensibilità; una sempre maggiore marginalizzazione della testimonianza ellenica ed ellenistica nelle nostre inclinazioni culturali. E, paradossalmente, dei tre grandi “tenori” di quella irripetibile stagione letteraria Eschilo è stato il più bistrattato. Distante dal lavorio di complessificazione personalistica di Euripide, è pure ritenuto al più anticipatore arcaico di alcuni temi e tecniche del giovane Sofocle, che però fronteggiava e superava in grandezza il vecchio maestro.
Nel nostro classico mandato a memoria, che dopo le scuole quasi dimentichiamo di rileggere (e di rivedere: prova ne sia la caduta dai cartelloni teatrali stagionali della tragedia greca, salvo poche eccezioni), Eschilo è in effetti confinato a una dimensione prepolitica. È un figlio del vecchio mondo, non è considerato il padre del nuovo. È il bastione di un orizzonte valoriale molto più limitato di quello della polis, è il tragico tutto titanismo e chiamata alle armi, toni solenni e invocazioni divine. È l’avo cui Crono ha tolto i discendenti. Ci permettiamo di suggerirne invece l’attualità al tempo nostro, soprattutto dal punto di vista dei contenuti e delle trame, oltre che delle suggestioni. La cifra linguistica, l’evoluzione letteraria, lo studio del verso, non ci appartengono e volentieri vanno lasciati – per valorizzarli, non per accantonarli – agli specialisti del ramo.
Innanzitutto, Eschilo è all’origine del periodo aureo della cultura ateniese. Ha visto la sconfitta degli antichi rivali: quelli veri, non mitologici, quelli del fronte. Ha visto, cioè, lo scontro coi Persiani: il modo in cui le due preponderanti civiltà e culture del tempo si sono misurate in battaglia. Stiamo qui fuori da guizzi occidentalisti che hanno messo nell’epocale battaglia di Salamina il redde rationem di un’epoca: l’affermazione di Ovest su Est, la disfatta di Asia e la vittoria d’Europa. Non è esattamente così: viste con schiettezza e lealtà, le vicende storiche dell’Oriente persiano e dell’antichità greca, ponte gigantesco tra l’Est e l’Ovest, che l’uno rielabora e l’altro aiuta a generare, non sono bianco contro nero, ma sfumature ricchissime di terre limitrofe.
Eschilo è sull’uscio del grande pensiero greco, non solo letterario: apre la porta ai suoi grandi demoni e interrogativi. Il suo protagonista non è Zeus onnipotente, innalzato a un dispotico dominio del mondo terreno: appare piuttosto Prometeo, l’uomo punito senza colpa se non la sfida ai limiti che vertevano sull’umano. E cosa però c’è di più umano di sbagliare non sapendo individuarli, quei limiti? Cosa c’è di più umano e meno arcaico e teandrico di chiedersi come e quando e da chi essi debbano essere posti?
La grandezza di Eschilo, per il momento possiamo concludere, non è lo stile aulico, l’enfasi spasmodica sul dominio del tempo divino contro il tempo umano. È piuttosto nella fragilità esasperante di personaggi più intricati delle apparenze, che si domandano quale sia la loro collocazione nell’esistente. Il teatro di Eschilo non è il teatro fondativo dell’istituzione, ma è comunque il teatro che radica il dovere di esistere come persone, sapendo che non avere limiti significa non poter abitare uno spazio. Il coro si asciuga, non è più il serbatoio di inquietudini in cui annega l’attore, anzi l’attore in scena non è più solo e il dialogo diventa parte del dramma. Se Eschilo è oscuro, è perché è solo l’ultimo personaggio prima dell’alba: guarda al futuro in direzione dell’ancora ignoto che sta a Ovest, e non rinnega nel vuoto tutto quello che lo ha preceduto sul lato opposto.
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