Si conosce veramente solo ciò che si ama, “perché l’essenziale è invisibile agli occhi”, direbbe Antoine de Saint–Exupéry. Una biografia, quella che presentiamo, non è solamente una raccolta scientificamente ordinata di dati cronologici e di intraprese ecclesiali, ma è una immedesimazione nella vicenda umana, culturale e di fede di una persona, quella del Vescovo Eugenio Corecco, accompagnandola nel suo sviluppo interiore. 



Mi pare sia questo l’approccio rigorosamente scientifico, che non annulla l’analisi interiore, utilizzato dalla storica Antonietta Moretti, esperta nelle pubblicazioni legate ad Helvetia Sacra, nella stesura della biografia, fresca di inchiostro, di Eugenio Corecco. La grazia di una vita (Cantagalli, 2020), introdotta dalla preziosa prefazione del cardinale Angelo Scola, arcivescovo emerito di Milano, fedele amico del vescovo Corecco.



Eugenio Corecco (1931-1995), professore ordinario di diritto canonico all’Università di Friburgo–Svizzera e più volte invitato a tenere corsi all’Università Cattolica di Milano e in altre parti del mondo, teologo del diritto canonico e vescovo di Lugano, fu protagonista, non ancora pienamente conosciuto, di una fase esaltante della Chiesa sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Corecco è ancora un personaggio in parte da riscoprire per le geniali intuizioni nel campo della teologia del diritto canonico, ma non di meno come vescovo creativo e innovativo nell’impostare la pastorale nella sua diocesi, quando Giovanni Paolo II lo chiamò, con mossa assolutamente personale, a reggere la porzione di Chiesa che è a Lugano. 



La biografia ripercorre la sua esistenza terrena, stroncata nel 1995 da una malattia devastante nel pieno del suo ministero episcopale, a soli 64 anni e 9 dall’inizio del suo episcopato. 

Fin da giovane prete comprese, come scrive il card. Scola nella prefazione, che il cristianesimo “non è anzitutto una dottrina, ma una saggezza per la vita”. Ben si adatta a descrivere l’esperienza personale del vescovo Eugenio la frase di Papa Benedetto XVI, ripresa da Papa Francesco e divenuta sempre più illuminante circa l’essenza del cristianesimo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Deus caritas est, 1).

Ciò che la natura, per grazia, aveva dotato Eugenio nella sua struttura personale: aperto, sorridente, perspicace, coraggioso e insieme prudente nel valutare le contingenze, predisposto a cogliere l’aspetto positivo delle vicende umane, ha preso nella maturità della vita consistenza di pensiero, vigore esistenziale, forza educativa soprattutto dopo l’incontro con don Luigi Giussani e con i primi passi del movimento da lui fondato di Comunione e liberazione. Per questo non esitò a introdurre in Svizzera, agli inizi degli anni 60, nonostante manifeste ritrosie ecclesiali, il movimento di don Giussani.

Cristo si presenta nella sua vita – e la biografia lo mette bene in risalto – come la chiave di volta del suo operare come uomo di cultura cattolica, come prete e vescovo. “Siate forti nella fede”, fu il tema della sua prima lettera pastorale rivolta al popolo cattolico del Cantone Ticino, ma furono anche le sue ultime parole prima di lasciare la sua gente. “La Tua grazia vale più della vita” (Salmo 62). Fede e grazia che risentono dell’unico protagonista soggiacente al suo operare: Gesù Cristo. 

La sua azione pastorale, così risulta dalla biografia, era totalmente impregnata dal clima e dalle indicazioni del Concilio Vaticano II. Studiato, articolato e ricapitolato nel suo impianto dottrinale e pastorale, il Concilio fu l’agente ispiratore non solo del suo studio e della sua azione di Pastore, ma anche nel condurre accalorati confronti – come studioso e come vescovo – all’interno della speciale Commissione pontificia di revisione del Codice di diritto canonico, prima che fosse promulgato. La nozione di Communio fu la cifra sintetica del suo pensare e operare, immaginando essere questa la connotazione strutturale della Chiesa cattolica nei suoi due aspetti compenetranti della dimensione carismatica con quella istituzionale.

Una personalità così connotata non poteva che essere creativa di opere, che ben esprimevano le capacità di contatti personali e istituzionali a tutto campo. Dalle pagine della biografia risulta chiaramente come la sua era una presenza che, senza imporsi e dominare, si faceva ascoltare e riusciva a persuadere con un argomentare rigoroso.

Da questo temperamento geniale nascono avventure culturali che segnano la Chiesa. La nascita della rivista teologica internazionale Communio, patrocinata da Hans Urs von Balthasar e Joseph Ratzinger; la collana di manuali di teologia Amateca, ma soprattutto quell’istituzione teologica, impensabile date le contingenze storiche, che è Facoltà di Teologia di Lugano.   

E così arriviamo a quel capitolo doloroso, “un anno di quattordici mesi”, che introduce al termine dell’esistenza terrena del vescovo. È in quel momento che Corecco palesò una paternità dolce, associata all’intensità della vita di fede, ben descritta in un’omelia pronunciata durante la Settimana per l’unità dei cristiani: “La nostra coscienza impallidisce di vergogna pensando allo scarto ancora esistente tra il nostro amore e quello con il quale Gesù stesso ci ha amati durante la sua vita e continua ad amarci dopo la Risurrezione”.

Infatti, uno dei crucci più acuti a soli pochi giorni prima di morire, ormai incapace persino di tenere la penna in mano, fu quello di non poter rispondere personalmente alle innumerevoli lettere e biglietti che gli giungevano da tutte le parti della diocesi. Persino alcuni uomini politici del Governo, spesso agnostici, si rammaricavano di non aver potuto accarezzargli la mano prima della dipartita. 

Questa ultima parte della vita, quella della sofferta malattia e della morte, è la parte decisiva dell’esistenza terrena del vescovo Corecco. La biografia mette bene in risalto “questo tempo che si fa breve”, sapendo che il vescovo Eugenio rimarrà nella storia e nella memoria del popolo affidato alle sue cure, come il vescovo finalmente pacificato con se stesso, che ha compiuto l’atto del totale abbandono in Dio.

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