È da poco passato il 120esimo dalla nascita di Pavel N. Evdokìmov (1901-1970), grande filosofo e teologo russo. La sua storia e la sua opera ci parlano ancora per la profonda verità che le hanno animate. Una vita non facile la sua: il padre assassinato quando aveva solo sei anni, l’esilio dopo la rivoluzione, mestieri umili (tassista, aiuto cuoco, operaio, ecc.), una vita determinata dallo spirito di sacrificio volto alla salvezza d’altri (profughi ed ebrei). E poi l’impegno nel Consiglio ecumenico e la presenza come osservatore alla terza sessione del Concilio Vaticano II.



La sua posizione umana è ancora di straordinaria attualità, perché aiuta a guardare la realtà così com’è senza censurare nulla. Ne L’amore folle di Dio (1983) riconosce, infatti, la massiccia diffusione della confusione morale e del nichilismo. “La pressione dell’ambiente sociale e della cultura secolarizzata è tale che la religione cessa affatto semplicemente di interessare l’uomo. ‘Che ci sia qualcuno nell’alto dei cieli non è faccenda che riguardi l’uomo’ afferma Simone de Beauvoir. ‘Dio? Non ci penso mai’ confessa tranquillamente Françoise Sagan…”. E ricorda poi ne La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale (1983) le tragiche parole di Roger Ikor per cui “Dio non serve a niente”.



Per la mentalità moderna, infatti, non si tratta più di optare per il pro o contra e di rischiare come nella scommessa di Pascal, ma semplicemente di farsi trascinare dalla cultura egemone, lasciandosi andare alla corrente. La causa non è la non-scelta dovuta all’ignavia, ma la trascuratezza dell’io: l’abbandono delle proprie domande e della scoperta del mistero. Il soggetto contemporaneo vive in uno stato di anestesia della coscienza simile a quella del popolo de “La leggenda del Grande Inquisitore” di Dostoevskij. È comodo e senza affanni consegnare la propria vita al Potere. Ma è proprio il quieto torpore la minaccia più grande: “Dostoevskij e Baudelaire dicevano che il mondo perirà non a causa delle guerre ma di una intollerabile, gigantesca noia, quando da uno sbadiglio, grande come il mondo, uscirà fuori il diavolo” (Le età della vita spirituale).



La scossa, l’inquietudine, la sete d’altro, la debolezza di cui si è comunque portatori, inevitabilmente ritornano, però, e interrogano la mentalità dominante, richiamando l’io a sé e alla sua alterità. C’è, insomma, una vita che pulsa, dicendo altro e scombinando i limiti imposti dal pensiero unico. Ed è una vita che brilla, in maniera particolare, nell’esiguità di persone che vivono diversamente e non si accontentano. Tali vite insidiano le parole del nichilismo, infarcite di dimenticanze radicali e buone maniere. Avvertono una vibrante profondità dell’essere, “il tremore mistico di fronte all’infinità dello spirito e alla sua divinità; questo tremore precede lo stupore filosofico” (Dostoevskij e il problema del male, Città Nuova 1995). Evidenziano, per ciò stesso, un segreto “di più”. “Ogni parola può essere contestata da un’altra, ma quale è la parola che contesta la vita? domanda San Gregorio Palamas”. (Cristo nel pensiero russo, Città Nuova, 1972).

Non il Dio di una teologia trionfalista e superata e neanche l’uomo chiuso nell’isolamento di un nichilismo agonizzante sono, perciò, validi oggi. Ciò che può parlare, all’oggi, è una ferita da cui non si guarisce mai (Ibn Arabi). “Una ferita a causa del destino degli altri” (L’amore folle di Dio). Ed è la pietà infinita e tenera dell’anima russa, espressa pienamente dalla celomudrie (sapienza integrale, castità) del filosofo, che spera e chiede ancora oggi: “Sì, che tutti siano salvati”.

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