L’intento di uno scrittore è quello di lasciare un segno. Quando il segno sbiadisce serve un editore che lo ravvivi. È il compito assunto da Sellerio nei confronti di Hans Fallada (pseudonimo di Rudolf Wilhelm Friedrich Ditzen, 1893-1947), esponente del neorealismo tedesco, autore nel 1932 del bestseller internazionale Kleiner mann, was nun? Un affresco della vita quotidiana sul finire della Repubblica di Weimar. Mondadori lo pubblicò l’anno successivo col titolo E adesso, pover’uomo?. Lo mantenne a lungo in catalogo, ma già negli anni 90 il libro non era più in commercio, mentre conosceva nuova fortuna in Gran Bretagna e negli Usa. Il motivo principale dell’interesse per l’opera di Fallada risiede nell’inquietante interrogativo: perché il brutto anatroccolo della Repubblica di Weimar non si è trasformato in principe, ma nel mostro infernale del nazismo?
Fallada non ha risposte da dare, non è uno scrittore “impegnato”, se non nel “consegnare ai lettori un segmento del loro universo quotidiano: preciso, sobrio, senza illusioni”, perché al pari del protagonista maschile del suo romanzo, Johannes Pinneberg, si vorrebbe apolitico.
Inoltre, Fallada è un personaggio controverso, la sua stessa vicenda personale è da romanzo: punteggiata da alti e bassi, con duelli, ricoveri in psichiatria, incarcerazioni, alcolismo, tossicofilia… i fantasmi dai quali ha cercato di fuggire rifugiandosi nell’ideale piccolo-borghese, nel privato, negli affetti famigliari e nella scrittura.
A focalizzare l’interesse della critica internazionale sull’autore concorre la scelta – anch’essa controversa – di non lasciare la Germania con l’avvento del nazismo, un aspetto non secondario che permette alla sua testimonianza, affidata a due importanti lavori pubblicati dopo la guerra, e cioè Nel mio paese, straniero (1944) e Ognuno muore solo (1947), di conservare la freschezza del reportage su “ciò che abbiamo vissuto e patito, costretti a tremare ogni momento per la nostra vita e per la vita dei nostri cari”.
Per sua stessa ammissione Fallada non è un eroe: nulla a che vedere con un resistente attivo o con un dissidente politico. Piuttosto è un soggetto che presume di poter continuare a “coltivare il proprio campo” di scrittore, malgrado il nazismo, conservando la propria integrità morale. Sarà Goebbels in persona a svegliarlo dal torpore e a fargli sapere che “se oggi Fallada non sa ancora come comportarsi nei confronti del partito, come comportarsi nei confronti di Fallada il Partito lo sa!”. È così che Fallada finirà col dare alle stampe il romanzo propagandistico Der eiserne Gustav (1938). La sua posizione nei confronti del potere si riassume in un mix di snobismo intellettuale, ingenuità e paura, non senza un pizzico di opportunismo. Ne esce tratteggiato il profilo di un utile idiota, uno scrittore funzionale al partito, al di là di tutte le riserve personali.
L’appellativo di “idiota” Fallada se lo era sentito urlare in faccia dal suo avvocato, allorché pretendeva di far causa al partito per il suo primo arresto (1933), ostinandosi a non prendere atto che in Germania lo stato di diritto era stato travolto e completamente smantellato. Per i greci l’idiota (idiótes) è il semplice cittadino, l’uomo senza cariche, senza competenze (ignorante) e senza potere. Quindi sì, è di questi poveretti, coi quali gli è così semplice immedesimarsi, che lo scrittore vuole parlare.
“Fallada – afferma Ralf Dahrendorf – scrive una bella storia e la racconta bene”, ma la ragione del suo successo all’epoca e della sua capacità di conquistare il lettore anche oggi, va oltre le doti artistiche dell’autore. Il pover’uomo Pinneberg-Fallada non è solo il rappresentante del ceto impiegatizio mondiale allo sbando tra la presunzione di bastare a sé stesso e l’allarme costante per la propria sorte. È il rappresentante di ognuno che assuma lo stesso ideale di autosufficienza, illudendosi di cavarsela comunque. Il motivo trainante del successo di E adesso, pover’uomo? è stato il sentimento d’angoscia associato alla crisi della grande depressione: l’inflazione che annulla i risparmi di un’onesta vita borghese, le masse dilaganti dei disoccupati, la proletarizzazione del ceto medio. Per i sociologi il fertile terreno del nazismo.
Tuttavia, il romanzo di Fallada non è solo un documento “tardo weimariano”, la sua scrittura è potente, tocca il lettore e lo angoscia ancora oggi. L’angoscia (Freud dixit) è il maggior (e più utile) segnale di un assetto personale (o sociale) che entra in crisi. Essa pone il soggetto (e la società) davanti a un bivio: riproporre all’infinito lo stesso schema e le stesse premesse, o cambiare ricetta. Fallada – nome d’arte che ricapitola lo scrittore e la persona – insiste con la stessa ricetta e, anche se riesce a evitare il campo di concentramento, non per questo salva la pelle, morendo vittima di un’overdose di morfina a guerra ormai finita. Il lettore lo sente, man mano si immedesima nel personaggio e si allarma. Così gli tocca pensare a sé stesso e porsi la stessa domanda di Fallada: e adesso, pover’uomo? Vuoi continuare così o non conviene rifare tutto da capo?
Tutto da rifare, pover’uomo è il titolo della fiction Rai (1960-61), trasposizione in quattro puntate del romanzo di Fallada sul piccolo schermo.
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