Non sappiamo ancora abbastanza del profilo virologico del Covid-19; non siamo ancora sufficientemente attenti a qualificarne gli esiti immunologici, se e quando e come stimolarli. Scienziati stimati autorevoli (e degni di tal fama) comunque oscillano, senza riuscire a fornire il dato inoppugnabile e risolutivo; sempre che in una pandemia quel colpo di scena, quel deus ex machina, possano esistere davvero.



Di certo, abbiamo imparato a nostre spese che la fonte del panico nasce nel rimbalzo di percezioni sociali diffuse. Gli aumenti nei contagi seguono l’onda d’urto che provocano, non il contrario. Gli Stati Uniti, con le loro riaperture scaglionate da stato a stato, con la loro ripartenza disorganica, frastagliata e mal coordinata, hanno dato stranamente prova di una rinormalizzazione solerte che con quegli indici quantitativi sarebbe stata difficile non da prevedere, ma anche solo da sperare. All’opposto, la lunga galoppata del virus in Francia e Spagna ha forse svegliato tardi, ha forse svegliato male.



E allora per cercare di tracciare un’antropologia del diritto pandemico conviene tornare dove tutto ebbe inizio: in Cina, (pare) nell’inverno tra il 2019 e il 2020. Ci aiutano le pagine di Fang Fang e del suo Wuhan. Diari da una città proibita, collezione di appunti web meritoriamente salvata dagli agenti editoriali e pubblicati in Italia da Rizzoli.

Fang Fang è una brava scrittrice ma non è la qualità estetica a colpire. Semmai, nel mondo globale che riesce a negare la propria esistenza soltanto specchiandosi in tanti frammenti vicendevolmente muti, ci è utile studiare cosa successe nella psicologia collettiva. A dar per certe le stime del governo cinese, peraltro, sembrerebbe che l’immensa Cina di un miliardo e mezzo e oltre di abitanti abbia avuto meno di centomila casi. Il gigante bloccato, ingabbiato, sconfitto di fine gennaio sembra infine essersi non più che rotto un’unghia quando il virus gli si è scagliato addosso. Ciononostante le pagine di Fang ci raccontano un’altra storia.



Anzi, almeno altre quattro. Per questo bisogna leggere. Innanzitutto, colpisce la capacità del governo di Pechino di controllare l’immaginario della sua popolazione: dapprima, una certa superficialità marginalizzò senza troppi sensi di colpa gli eroici medici da campo che avevano scoperto la forza bestiale della “strana polmonite” contro almeno alcune specifiche categorie di malati. Subito dopo, il senso di allarme e l’obbligo nazionale-popolare di ibernare la vita fino ad emergenza finita resero straordinariamente efficace e duro un lockdown davvero di stretta che può funzionare solo in Stati strettamente gerarchici o strettamente collettivisti o strettamente parassitari (la scienza politica, la dottrina dello Stato e il diritto comparato ci spiegano da qualche secolo che i tre fenomeni possono presentarsi contemporaneamente).

In secondo luogo, in Cina, nei distretti industriali, la storia delle patologie respiratorie ha un andamento clinico durissimo. L’inquinamento, la sovrappopolazione, l’assente massimizzazione dei ritrovati di cura, trovano sempre il modo di abbassarti qualità e durata di vita: se non è il Covid, la falce cala per migliaia di altri motivi.

Terzo punto: questo mondo ovunque, basato sull’ineluttabilità dell’affollamento contingente (lavoro, trasporti, attività ludiche, servizi di cura), ha un disagio interiore profondissimo rispetto alla segregazione esplicita. Preferisce il sentirsi soli in mezzo a tutti che il sentirsi soli tra quattro mura affollate. Nel primo caso, si interagisce almeno con lo strumentario digitale, si compra, si consuma, si può morire alla luce del sole; e nel secondo?

Quarto e ultimo aspetto sollevato da Fang Fang: chi decide di far sapere e cosa far sapere? Anche la segretezza può essere bene comune. L’occultamento orchestrato è una forma di dominio, che ci piaccia o meno interrogarci sulla liceità e sulla giustizia del suo inveramento. Wuhan poteva essere sentinella del mondo; ne hanno fatto bancarotta del benessere condiviso. Si corre, si strepita. Si muore, ma soprattutto si accetta di farlo senza poterlo sapere.