Tolkien diceva che scriviamo i libri che vorremmo leggere. E perciò ci sono libri che, nel leggerli, si prova un piacere doppio. Anzitutto per cosa e come narrano e poi perché, finalmente, qualcuno ha fatto quello che avremmo voluto scrivere noi, risparmiandoci anni di fatica.

È il caso di Sentieri di fango di Michele Spagnolo, alla sua opera prima, edito per i tipi di Ares e da poco in libreria. Il dato, si può dire, commovente di questo volume è che non è un’opera di saggistica, per quanto i riferimenti storici siano sempre azzeccati e si noti immediatamente un sostrato stratificato di molte, molte letture.



Sentieri di fango è un viaggio, una “via crucis” europea in un posto quasi dimenticato del Belgio dove, da anni, risiede Michele con la sua famiglia. Una landa di circa 30 chilometri quadrati che, a distanza di 100 anni, non si è ancora ripresa dalle devastazioni di una guerra terrificante.

Per certi versi, infatti, la Prima guerra mondiale è stata più spaventosa della Seconda, che pure è incomparabilmente superiore per numero di morti (soprattutto civili e inermi) e di devastazioni, da Varsavia a Hiroshima. La Prima guerra mondiale è stata combattuta, per lo meno sul fronte occidentale, in luoghi ristretti, con rari sfondamenti: una guerra d’attrito che ha macellato intere generazioni su un lunghissimo fronte sostanzialmente immobile. Verdun, Isonzo, Grappa, Marna. Vimy Ridge, Gallipoli sono lembi di terreno intrisi di sangue. Nulla a che vedere con le spettacolari avanzate di Patton, Guderian o Rokossovskij. Solo la guerra del Pacifico (Guadalcanal, Iwo Jima, Peleliu, Okinawa) è simile come orrore: un inferno senza fine in uno spazio limitato.



In questo pezzo di Belgio, per quattro anni sono morti centinaia di migliaia di uomini provenienti dai quattro angoli del mondo. Spagnolo calcola che, solo per l’impero britannico, sono morti a Ypres una media di 5mila soldati al mese. Le perdite tedesche sono state anch’esse terrificanti. E il dato più disturbante è che gran parte dei cadaveri non è mai stata ritrovata: le loro carni sono state sepolte nel fango di Ypres, di Passendaele, di Langemarck, per poi riemergere a causa dei bombardamenti ed essere seppellite di nuovo, mentre il tanfo della loro putrefazione ammorbava i viventi e svelava il loro non più latente destino. E così tutta quest’area, impastata di fango, metallo e carne umana è un colossale cimitero a cielo aperto.



Michele Spagnolo, tra il 2014 e il 2018, partiva da Bruxelles e, con lo scrupolo e la preparazione dell’esperto di trekking, aduso “alle greppe dell’Appennino dove risuona / tra gli alberi un’usata e semplice tramontana” (Guccini), ha percorso questo campo di battaglia e ce ne racconta le avventure, i turbamenti: anche la paura, sì, quando è sprofondato nel fango che lo stava risucchiando come accaduto a migliaia di fanti. “Terribilis est locus iste” verrebbe da dire, dove la presenza dei morti, il loro ricordo è ancora avvertibile.

Come sia stato possibile un tale “suicidio d’Europa” secondo la felice espressione di Giuseppe Romolotti (autore dell’omonimo saggio edito tanti, tanti anni fa per Mursia) lo sappiamo. O meglio, lo sanno gli storici. Ma Michele Spagnolo ci racconta una storia diversa, trasversale a tutta la storia europea: certamente si descrivono i luoghi, grazie anche a una serie di splendide fotografie dovute all’arte sapiente dell’autore, ma dai luoghi partono i collegamenti con la cultura europea. Remarque, Junger, Sassoon, Owen, per citare solo i più celebri, ricorrono in quest’opera. E infliggono al lettore un dolore inesprimibile perché tanti grandi poeti, figli del periodo più splendido dell’Europa, sono diventati carne per i vermi a vent’anni. Alain Fournier, Augustin Cochin e Charles Péguy avrebbero potuto ancora scrivere cose straordinarie, ma così non è stato.

Giustamente Spagnolo ricorda quanto detto da Antoine de Saint Exupéry che, durante la Seconda guerra mondiale, aveva compilato la seguente statistica: 190 poeti o letterati avevano combattuto nella Grande guerra, mentre per la Seconda guerra mondiale il “poeta-pilota” ne contava solo quattro. Lui era uno di essi e anch’egli sarebbe caduto vittima del conflitto, abbattuto da un caccia tedesco al largo della Costa Azzurra nell’estate del 1944.

In definitiva, se vogliamo capire che Europa abbiamo per le mani, dobbiamo ripartire anche da libri come questo, anche se è presumibile che un testo simile sarebbe più adatto a un pubblico anglosassone che ancora coltiva il ricordo del conflitto mondiale, a differenza di quello italiano: un paragone davvero impietoso.

“Ammassa i corpi ad Austerlitz e Waterloo – scriveva Carl Sandburg – Interrali e lasciami lavorare / Sono l’erba e tutto ricopro. Ammassali alti a Gettysburg / Impilali a Ypres e Verdun / Interrali e lasciami lavorare / Sono l’erba e tutto ricopro / Due anni, dieci e i passeggeri chiederanno al conducente: / Che posto è questo? / Dove siamo ora? / Sono l’erba / Lasciami lavorare”.

Michel Spagnolo ha tolto l’erba e ha scavato, disseppellendo ricordi come quello del soldato John William Ogley, scomparso a Railway Wood nella notte tra il 21 e il 22 aprile 1916 con altri trentacinque compagni. Nessuno di loro tornò dalla pattuglia, nessuno è più stato ritrovato. Trentasei ragazzi scomparsi nel nulla, i cui nomi erano annegati nelle statistiche fino a quando l’autore li ha riportati alla memoria, alla vita.

Per questo e per altre centinaia di migliaia di ragioni questo lavoro merita di essere ricordato.

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