Un recente libro di Fatima Bhutto (Nuovi re del mondo, Minimum fax, a cura di Fabio Guarnaccia, 2023) poetessa e scrittrice pakistana, ma di origine afgana, offre uno spaccato di come sia cambiata profondamente la geografia della cultura di massa nel mondo. È importante sottolineare che quanto avviene a livello dei media riflette, ma spesso anticipa, la società e la politica. Non si capiscono le vicende internazionali in corso, compresa la guerra dei russi in Ucraina, senza tale prospettiva.



Una delle tesi di Fatima Bhutto è che Hollywood non sia più il riferimento centrale dell’intrattenimento globale. Oggi la Turchia è il secondo esportatore al mondo di serie tv (si chiamano dizi), le piattaforme sono zeppe di serie coreane (K-drama), la Nigeria è un gigante mondiale della produzione cinematografica e Bollywood, cioè l’India, già da tempo esercita un’enorme influenza nella fiction mondiale.



La pop cultura americana, libertina, appariscente, fondata sulla perenne competizione per il potere, sembra non ammaliare più come un tempo. L’avremmo detto quarant’anni fa, mentre guardavamo Capitol su Raidue, o Topazio su Retequattro? Occorrerà approfondire l’analisi di quello che forse è un fattore del grande “cambiamento d’epoca” (parole di papa Francesco), soprattutto per capire cosa si sostituisce al vecchio modello.

Qui interessa riflettere su un altro aspetto di tali fenomeni: l’impreparazione radicale a livello sociale ma anche personale, di fronte a tali cambiamenti. Come mai? Il sistema dei media sembra ripetitivo. Gli algoritmi di raccomandazione delle piattaforme individuano i nostri (apparenti) gusti e ci ripropongono sempre i medesimi titoli: o quelli scelti da altri utenti che il sistema giudica simili a noi, o i titoli che la taggatura dei contenuti ritiene analoghi a quelli da noi precedentemente scelti. Idem per la musica, ad esempio su Spotify.



Non è diverso per la tv tradizionale. Mi diceva una volta Maurizio Costanzo, parlando degli autori televisivi, che ciascuno fa per tutta la vita un solo programma. Lui ad esempio ha continuamente rifatto il suo talk show, anche quando lo ha arricchito nel contenitore della domenica pomeriggio. E infatti l’esperienza insegna che in tv ogni novità non è che uno spin off, cioè nasce come costola di qualcosa che già c’è. L’uscita nelle sale de Il sol dell’avvenire sembra confermare questa tendenza anche nel cinema, perlomeno quello italiano. Al di là del giudizio di merito – a molti il film piace – la critica sottolinea che si tratta del solito film di Nanni Moretti: pieno di “autocitazioni” (Il Giornale), film “morettiano” (Repubblica), consueto “campionario di manie e idiosincrasie” (Corriere della Sera), “niente di nuovo sotto il sole” (Wired). Eppure il botteghino tiene, la gente lo gradisce e va a vederlo. C’è dunque un pubblico che vuole sentirsi raccontare sempre le stesse storie, dalle medesime persone e in modo uguale? C’è uno zoccolo duro che resiste al cambiamento? Perlomeno in Italia? Ovviamente no, solo che è difficile accorgersene subito. Il sistema dei media cattura con la promessa rassicurante di qualcosa di noto, ma in realtà fa sempre passi avanti, soprattutto spingendo i confini dell’etica sempre più in là. Sovente le novità sono introdotte a piccole dosi, per non spaventare e così sul momento è difficile percepirle.

Oltretutto il fatto grave è che quanto vale per i media e la società vale anche per la persona. È terribile svegliarsi di colpo all’estero, in terra non tua, spaesato come chi sì è perso un pezzo di storia. Un po’ di intelligenza, di apertura mentale o anche solo di realismo in più permetterebbe invece di accorgersi dei cambiamenti mentre avvengono e non solo a cose fatte. Perlomeno per battagliare un po’.

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