Un romanzo sulla Resistenza distante cronologicamente dalla Resistenza stessa; una guerra sullo sfondo, che solo alla fine fa sentire il suo peso soffocante, nonostante il protagonista sia un partigiano; una storia d’amore tormentata eppure ricercata, forse mai iniziata o mai conclusa, eppure motore dell’intera vicenda.
È su queste coordinate ai limiti del paradossale che Beppe Fenoglio costruì Una questione privata, singolare capolavoro della nostra letteratura pubblicato postumo, nel 1963. E in effetti un po’ paradossale si presenta, il romanzo di Fenoglio. Paradossale e decentrato, divergente, a tratti volutamente inconcludente.
Ma come si sposa un tale giudizio con quello ben più illustre di Italo Calvino, che nella prefazione scritta nel 1964 al suo I sentieri dei nidi di ragno, definì l’opera di Fenoglio come quella che tutti avrebbero voluto scrivere? C’è qualcosa, nella scrittura dinoccolata e reticente dello scrittore piemontese, che ammalia i lettori prima ancora che questi si rendano conto di essere finiti nella sua morsa.
Nel disorientamento che l’intreccio di Una questione privata provoca al primo impatto, nello spaurirsi di fronte all’ariostesco peregrinare dei personaggi, chi si accosta alla storia dell’inquieto Milton troverà un appiglio nella comune umanità di quei sentimenti, nella consapevolezza profonda di potervisi riconoscere in qualunque tempo. E forse proprio qui risiede la grandezza di Fenoglio: aver ritratto l’universale dando l’impressione di osservare il particolare, aver scoperto il mondo nell’intimo di ogni persona che lo percorre.
Il risultato di questa scoperta, Fenoglio, lo aveva vissuto in prima persona. Si era reso conto, sulle sperdute Langhe dove aveva combattuto in prima linea, che l’essere umano è insitamente votato alla ricerca, a percorrere un sentiero dove ogni tappa è il punto di partenza verso un traguardo ancora più grande e ambizioso, a riconoscersi nell’appartenenza a un destino collettivo.
Per tale ragione il suo Milton sembra non trovare mai conforto, un posto dalle stabili fondamenta: Giorgio e Fulvia, per motivi diversi, risultano inafferrabili; inoltre, un’insondabile nebbia accompagna costantemente il suo incedere, celandogli la vista e acuendo i suoi timori, avvolgendolo persino in occasione della scena finale, quando, scomparendo in un salto tra la fitta vegetazione boschiva, rimane sospeso tra la vita e la morte.
Il personaggio fenogliano, perciò, insegue una certezza che non può possedere, perché non il raggiungimento, ma lo sforzo profuso per avvicinarsi ad essa ci mantiene vivi custodi della speranza. In un ambiente che – viene più volte detto all’interno del romanzo – richiama un grigio oltretomba, che minaccia di sommergere con fango e piene coloro che lo sfidano, Una questione privata raggiunge vette pressoché sbalorditive nel fare di una quête amorosa un grande ritratto dei bisogni umani.
Milton, e noi con lui, non cerca tanto Fulvia o lo schieramento nemico dei fascisti: cerca piuttosto una conciliazione perduta, uno squarcio di vita, una felicità incorrotta ed ancestrale. Cerca un Paradiso, cerca il Dio che lo ricondurrà alla pace.
Tutt’altro che casuale, seguendo questa chiave di lettura, il flashback che Milton associa a Fulvia: una scena ambientata in un giardino, dove la donna tiene in mano una mela e si rifiuta di farsi seguire dall’amato, che la guarda allontanarsi progressivamente. È in questo scorcio genesiaco che Fenoglio manifesta la sua più recondita irrequietezza: l’uomo moderno, in virtù di una guerra feroce e immotivata, ha esperito la cacciata dal suo Eden personale, la macchia di un peccato che insudicia il suo animo, l’esclusione dalla pienezza della vita.
Oltre la nebbia delle Langhe, Milton spera di poter riaprire le porte di quella sensazione celestiale, di poter sostituire il cupo e bellico onirismo di cui si sente prigioniero con l’ascesa verso ciò che crede di meritare e che gli è stato strappato con la forza. Dietro Fulvia e tutte le parvenze che affollano il suo sguardo stanco, dietro le ingannevoli percezioni che sembrano affliggerlo, il partigiano di Fenoglio va a caccia di una promessa eterna, di un volto che certifichi la sua vittoria sul male.
Per riuscire in questa impresa a cui ogni uomo è chiamato, a Milton non basta attendere che una rivelazione chiarifichi i suoi interrogativi più serrati. È necessario tuffarsi nel vortice del rischio, sfidare il pericolo dell’annullamento, mondarsi da ogni timore di fallimento. Dall’Inferno della guerra, come da quello dello smarrimento esistenziale, si può venire fuori solo accettando la nostra natura di inesausti cercatori. E, se necessario, affrontando la prospettiva della morte stessa. Perché solo sull’orlo del precipizio si matura il senso di un itinerario terreno. Solo davanti al nulla può prendere forma il tutto che ci pervade e che ci richiama.