Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, aveva l’hobby della caccia: in modo assoluto, reiterato, compulsivo quasi. E non perdeva occasione per escursioni venatorie che s’attuavano nelle numerose casine e torri e palazzine di caccia da lui usate o costruite: quella vanvitelliana sul Lago di Fusaro, la casina della Vaccheria, la Casina Reale di Pozzuoli, quella di Licola ai Campi Flegrei, quella di Carditello fino all’ultima Casina di Ficuzza a Palermo, senza contare Caserta.



Il ludus venatorio da circa un millennio era il preferito dei regnanti e dell’aristocrazia: nell’inoltrato XVIII secolo verrà a costituire – insieme al teatro e al giuoco – la componente “sportiva” di una filosofia esistenziale in cui ciò che il principe de Talleyrand eleggeva a principio guida del secolo, ossia le plaisir de vivre, era praticato a fini di personale “sollievo” ed insieme di partecipazione e affermazione sociale.



Ferdinando, come s’è detto, amava la caccia forse più d’ogni altro monarca del tempo, ma non solo quale espressione di un’attività resa fulgida da un suo lontano predecessore, Federico II, ma anche perché gli consentiva una full immersion nel territorio e tra i suoi abitanti altrimenti vincolata ai ben più formali viaggi e visite ufficiali. Le battute di caccia erano insomma anche un modo per uscir di Palazzo Reale, per “decentrarsi” ed aver contatti con un popolo che da ciò traeva lavoro, vicinanza e attenzione.

In primavera Ferdinando andava quasi sempre a Capri per quel “passo delle quaglie” che da tempo immemorabile tra aprile e maggio oscurava i cieli dell’isola: i capresi, lungi dal por mano a fucili e moschetti, innalzavano per l’occasione delle alte “paratie” (in realtà reti da pesca in disuso) nelle quali i saporiti volatili s’incagliavano e attendevano storditi e rassegnati la loro sorte, in casseruola o allo spiedo, comunque sui migliori mercati di Napoli. Il re Borbone arrivava con una corvetta della Real Flotta, talora con qualche ospite e scendeva a Palazzo Canale, un imponente edificio del XIV secolo, posto a pochi metri dalla Piazzetta, più volte restaurato e fino ad alcuni anni prima proprietà di un baronetto inglese, sir Nathaniel Thorold e da tempo scelto da Ferdinando come sua residenza caprese. “Lo Palazzo” divenne per sua volontà una struttura integrata da terrazzi, archi, un attico mozzafiato, pareti affrescate da pittori capresi, fughe interminabili di stanze, saloni, scale dall’aria solenne e uno splendido, lungo ponte d’entrata.



Nell’aprile-maggio del 1787 Ferdinando giunse a Capri insieme ad alcuni membri della corte e al segretario della legazione austriaca a Napoli Norbert Hadrava. Vi troverà un tempo inclemente fino alla tempesta di mare e alla bufera di neve. Da Palazzo Canale scrive però quasi ogni giorno alla moglie Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, rimasta in città per l’incipiente gravidanza e per l’ordine tassativo dei medici. Le lettere sono state ritrovate anni fa da Nadia Verdile e pubblicate in un volumetto (edizioni Il Campano, Napoli 2010), con una prefazione di Raffaele La Capria.

E sono in verità non solo assai divertenti, ma in un certo senso rivelatrici. Anzitutto d’ un particolare affetto per la moglie. All’epoca Ferdinando e Carolina erano sposati da quasi vent’anni. Come in molti dei matrimoni dinastici dell’epoca, le nozze erano state celebrate per procura e l’accoglienza della sposa nella reggia era stata rinviata ad una fastosa e successiva cerimonia (benissimo descritta nel film Ferdinando e Carolina di Lina Wertmüller). Il problema era poi il primo incontro d’intimità fra gli sposi e un’amalgama successiva sempre difficile per il contemperamento di famiglia, potere, differenze di cultura, educazione. La prima notte dei Reali di Napoli era stata sgradevole ad entrambi: “Dorme come un’ammazzata e suda come un porco” aveva detto Ferdinando; e lei aveva scritto alla madre: “Confesso apertamente che preferirei morire piuttosto che rivivere un’altra volta tutto ciò che mi è capitato”.

Tuttavia metteranno al mondo diciotto figli e fino ad una cert’epoca – individuabile negli anni successivi all’esecuzione di Luigi XVI e di Maria Antonietta e poi alla Rivoluzione napoletana del 1799 – i loro rapporti saranno improntati ad una buona collaborazione negli affari di governo e ad una certa tenerezza. Lei – è ben noto – vorrà sempre più farsi ago della bilancia, occulto o palese, delle decisioni essenziali della monarchia, soprattutto per le alleanze e di conseguenza per le nozze dei figli: celebre il progetto, suo e di Caterina II, del matrimonio fra una Borbone di Napoli e lo Zarevic di Russia, contro cui le urla di Ferdinando – “non darò mia figlia a uno scismatico!” – si sentiranno per tutto Palazzo Reale. Lui avrà comunque una pazienza a lungo su di lei vincente; poi i rapporti saranno alterni, lasciando infine il posto ad un’amareggiata, totale e scambievole repulsione, come testimonierà il Diario segreto di Ferdinando tra il 1796 e il 1799.

Le lettere da Capri sono ancora una sorta d’idillio coniugale a distanza. Ferdinando le scrive almeno ogni giorno, in un tono familiare e – nella sua regale rusticitas – invero accattivante. Ecco una lettera, di poco dopo l’arrivo, il 23 aprile: “Moglie carissima. Dopo aver pranzato all’una e mezza, siamo andati a riposare ed io ò placidamente dormito fino alle quattro e mezzo. Risvegliatomi mi ò spicciato il Consiglio di Giustizia e poi alle Sei e mezza siamo andati a prendere la S.ta Benedizzione, doppo della quale ò scritto fino alle otto. […] Il tempo è veramente di paradiso e il mare come in Estate, per cui le Corvette fanno quello che vogliono. Domattina il resto, per ora col cuore ti desidero la buona notte ed ottima salute”.

Sarà l’ultimo giorno di bel tempo. Già il 26 comunica: “Moglie carissima. Dopo averti scritto, à continuato a piovere molto con forte vento di scirocco. All’una essendo ritornati dalla caccia Salandra e Altavilla, ci siamo messi a tavola dove puntualmente Hadrava è stato spettatore…”. Le serate a Palazzo Canale infatti si svolgevano equamente divise tra le lettura, “un po’ di musica” e interminabili partite a Giacchetto (gioco oggi non noto e forse corrispondente o al Picchetto o con più probabilità alla napoletana Zecchinetta), ove la posta non era il denaro, ma il pranzo o la cena. Che il segretario di legazione austriaco immancabilmente saltava…

Il 28 la situazione meteorologica s’era fatta ancora peggiore: “Moglie Carissima. Da che ti ò spedito questa mattina fino al tramontar del sole non è stato altro che un continuo diluvio. Io ò giuocato fino alle Undici indi ò inteso la Santa Messa […] dipoi sono andato a pregare il Signore per la salute della mia buona compagna. I venti sono girati dalla parte di Ponente da dove è rischiarato un poco […] Ora farò in poco di musica, per la quale mi faresti gran piacere di mandarmi un piccolo pianoforte per sonarlo Hadrava e far prendere da Cafaro tutti i duetti e terzetti che io tengo per poter far miglior musica”.

E il 29: “Moglie carissima. Acqua e sempre acqua, questo è quello che qui ci favoriscono, del resto, a riserva di morirci di freddo stiamo benissimo e particolarmente io che scrivo e leggo e così mi occupo, ma i miei Signori, che tutto sanno fare fuor che questo, si annojano a morire” […] All’ora solita sono stato a pregare il Signore per chi mi vuol bene e ritornato a casa ò scritto fin ora che sono le Otto. Ora farò un poco di musica fino alle Nove, che ceneremo e poi si và a letto. Col cuore desidero a te la buonanotte Santa e felice di chi ti stima e ti ama più di quello che una certa persona crede”.

Il 1° maggio esce solo per passare in Chiesa: … “a prendere la Santa Benedizzione ed a pregare il Signore più perché mi faccia ricever buono nuove e presto della preziosa salute tua e che il nuovo nennillo si faccia quietamente i fatti suoi nella tua panza”.

Tuttavia Ferdinando ha tempo anche per occuparsi d’alcune situazioni “difficili”. Il 2 maggio annota: “Vorrei parlar ora della povera Jovene, ma il caso è troppo lacrimevole e qui non ci mancano casi simili […] mi figuro bene l’amara situazione di quella povera giovane […] nel momento della separazione dal figlio procreato: grand’opera meritoria a Dio faresti se con quest’occasione potesti indurla a riunirsi col marito, che penserei io a far stare a dovere”.

Ma il giorno dopo: “Moglie carissima. Abbiamo perduto la Bussola con questo Diavolo di tempo!”.

E alla fine, dopo l’8 maggio, data dell’ultima lettera, deciderà di ripartire: “Vediamo le Corvette ancorate in Baja, ma per uscire il vento è contrario tutt’oggi avendo spirato da Levante. Chiudo questa mia lunga lettera, che dubito ti annojerà, per farla all’alba partire temendo del tempo. Ti scongiuro a pensare alla tua preziosa salute ed al tuo povero inumidito Ferdinando B.”

Crediamo che questa breve, fors’anche futile, tranche de vie regale e familiare, possa scoprire un lato della personalità d’uno dei monarchi più longevi della storia, finalmente depurata da quella “leggenda nera” che una storiografia prima postunitaria e poi ideologicamente marcata (così è anche l’astiosa prefazione di La Capria) gli ha voluto apporre, facendone una sorta di incolta marionetta con corona. Non fu così: i suoi interessi librari, musicali, umani, sociali – oltre che venatori e faceti – sono agli atti, confortati da carteggi, diari, cronache. E i posteri vanno sempre più pronunciando sentenze diverse da quelle d’un tempo.

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