Le cose parlano? O come anche continuamente si domanda Felipe Diaz Carrión, il protagonista del romanzo Occhi che non vedono di José Angel González Sainz, “vogliono dirci qualcosa le cose, o semplicemente accadono e siamo noi quelli che imploriamo che qualcosa ci parli?”.

Certamente parlano le rose e i ponti crollati per l’incuria dell’uomo. Ecco cosa hanno in comune due recentissimi libri di poesia molto diversi tra loro come Tutte le altre rose, edizioni Effigie, di Davide Ferrari, e Ponti sdarrupatu, Passigli Poesia, di Alfredo Panetta: fanno parlare le cose e dentro quella voce parlano gli uomini e il mistero della loro esistenza. Fanno quello che deve fare la poesia: ascoltano e guardano, custodiscono quel segreto in silenzio e poi lo fanno rifiorire o sanguinare dentro la loro parola.



Davide Ferrari scrive nel dialetto di Lardirago, un paese in provincia di Pavia, relativamente semplice da leggere per me che sono della Brianza, tanto da non dover quasi mai sbirciare la traduzione in italiano posta sotto il testo. Parla delle rose il libro di Ferrari, ma, a dispetto proprio del titolo del suo libro, parla di una rosa: raccontando infatti di tutte le altre rose rivela sé stesso, la sua quieta e inquieta domanda sul significato della vita, la sua idea di poesia.



Ecco cos’è la poesia per Ferrari: “una parola buna de varcà/ tüt i cunfin d’la storia, una reliquia/ sula, bütà ad surpresa me una rösa/ c’la düra mila an in una prösa/” (Una parola capace di varcare/ tutti i confini della storia, una reliquia/ sola, germogliata di sorpresa come una rosa/ che duri mille anni in un’aiuola). E in uno dei testi che chiudono la raccolta, è sempre l’ascolto attento della rosa a rivelarci il nostro destino: “Forse dumà ad not, cui sogn ch’i passan/ in d’i oč, suma me i fiür, svuidà i sacòč / d’la rima, i vers, i num, suna dabón/ insi par num, nossa sumensa e fiur,/ fiurì dapùs al mür sensa savé/ al parchè e cun precisión indè” (Forse solo di notte, con i sogni che passano/ negli occhi, siamo come i fiori, vuotate le tasche/ dalla rima, i versi, i nomi, siamo davvero/ soli, nostra semenza e fiore, / fiorire dietro il muro senza sapere/ il perché e con precisione dove).



Ferrari ci dice qual è il compito del poeta e dell’uomo, raccontando come sta davanti alla rosa: “…am pias a stag arenta, guardàg/ dentar, amàla p’r’intuission, e scundam/ in dal brass par sügà sü al magón” (mi piace starle vicino, guardarci/ dentro, amarla per intuizione, e nascondermi/ nel braccio per asciugarmi il magone). Che bello questo magone, che bella questa commozione dentro la quale anche noi siamo presi buttando il cuore e gli occhi dentro le cose.

Un magone scuro è anche quello in cui ci immerge l’altro libro di Alfredo Panetta, calabrese di Locri trapiantato nell’hinterland milanese. La lingua basso-ionica reggina in cui scrive mi risulta più dura e difficile e richiede uno sforzo, un andare e venire dalla traduzione italiana, anche una fatica, ma ripagata sempre da una poesia di grande intensità.

Il suo compito non era facile e neanche esente da tranelli: in Ponti sdarrupatu il poeta scrive del crollo del ponte Morandi dell’agosto del 2018. Scrive delle vittime, convoca nelle sue parole le parole di coloro che in quell’istante sono morti e di quelli che ancora oggi, disperati, muoiono con loro, pregano o chiedono ragioni. Insieme a lui parlano in tanti, nella sua voce il poeta raccoglie altre voci, di persone e cose, a cui dà voce. Panetta lo dichiara in modo esplicito: “Vogghjiu na palora senza pietà/ chi si ncolla comu salamida/ ê filesi ‘i nu pilasthru/ na nticchjia du sdarrupu” (Voglio una parola spietata/ che s’incolli come un geco/ alle crepe di un pilastro/ poco prima del crollo). Nella sua feroce e intenerita litania di vite perdute, dice subito in quale poesia crede: “Eu crjiu nt’e palori/ no comu focu sagru/ ma comu chjianti anudeja/ chi, mpercicati ê timpi/ nta ju terrenu povaru/ cavanu civu bonu” (Credo nelle parole/ non come fuoco sacro/ ma come piante spoglie/ che inerpicate a rupi/ da quel terreno povero/ traggono nutrimento).

Nessuna ansia risanatrice anima la parola poetica, nessuna salvezza è di sua competenza: la sua forza è soltanto la tenacia di un attaccamento alla terra e alla vita. Questo attaccamento al vero si realizza naturalmente attraverso una lingua tagliente e dura, attraverso la scelta di mettere sotto i riflettori un mondo fatto di catastrofe e ruggine, di incurie e di malte bastarde che si sbriciolano, di schianti di pilastri che diventano cuori e occhi.

Questa misura è ciò che impedisce alla poesia di Panetta di trasformarsi in una sterile invettiva: siamo dentro una poesia che  proprio perché ci mette la faccia e l’urlo sepolto, per resistere umani – abbraccia le cose e gli uomini con la consapevolezza che il poeta trova nello sguardo di una delle vittime “tènnaru, a d’a vita/ a malugradu u so vizziu ‘i fari ‘i cchjiù. / Nto scuru si thrasi/ a testa ajitta, sempi” (tenero, alla vita/ malgrado il suo vizio di strafare. Nel buio si entra/ a testa alzata, sempre). E alla fine, allora, ci teniamo questi quarantatré battiti “cum’un pugnu nto cori/ com’un venthu ‘i burrasca/ a’ da lùcia du suli” (come un pugno nel cuore/ come un vento di burrasca/ alla luce del sole). La durezza della lingua si piega a dire che “Quandu mori ‘n ponti/ nesci n’idea di casa/ cu n’angra’i cruci/ sutta d’i fundamenthi” (Quando muore un ponte/ nasce un’idea di casa/ con un giardino di croci/ sotto le fondamenta).

Che inutile la poesia, allora, capace soltanto  per dirla ancora con le parole di Panetta  di posare le mani lacerate sulla crepa. Ma come abbiamo bisogno di questa inutilità, del magone che ci consegnano poeti come Ferrari e Panetta, così diversi, così ugualmente vicini alle cose e ai cuori.

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