Lodovico Festa ci ha regalato da alcuni anni non più soltanto la sua straordinaria intelligenza consegnata alle brevi note che scrive per Tempi e alle corpose ricerche condensate in sapidi saggi per Studi Cattolici, ma anche una vena di scrittore tout court, che potremmo definire di romanziere d’alta classe, se essa non si mimetizzasse sotto la veste di autore di romanzi polizieschi. È in libreria da qualche giorno il quarto dei libri di questa sorta di storia italiana vista sotto le lenti dell’intrigante giallista che si nasconde nei panni dell’ingegner Mario Cavenaghi, già probiviro di un PCI milanese descritto nella sua storia declinante recente, con un acume festiano tipico della grande sociologia e dell’arte della politica di cui il nostro autore è insuperato maestro. Quel PCI sembrerebbe ormai scomparso, ma invece è ben vivo nell’anima dei suoi antichi militanti, isolati e sperduti solo nell’immaginario dei più, ma pronti a ritrovare se stessi e i legami fraterni di fronte all’ingiustizia e al pericolo di veder disperdere ciò che neppure l’errata scelta dell’altro PCI ha potuto sradicare.



L’altro PCI: non quello di cui i personaggi positivi di Festa sono il ritratto dignitoso e imperituro come la loro formazione spirituale. L’altro PCI fu ed è – per quel che ne rimane sotto altre spoglie – quello che cedette e vendette l’anima a una magistratura strumento tra il consapevole e il fanatizzato di quel grande disegno anti-italiano che fu l’inganno di Tangentopoli.



E di una nuova tappa di questa storia si tratta in Freddo al cuore (Marsilio, 2024), ultima illuminante fatica di Festa. Siamo nel 1994, nei rigagnoli di Tangentopoli ancora ben vivi e l’assassinio di un vecchio quadro comunista è al centro sia delle macchine oliate delle amministrazioni e delle società economiche municipali sia delle reti della mafia radicatasi in Lombardia negli anni Sessanta. Le infelici scelte repressive che si compirono allora, anziché isolare, radicarono il potere di una criminalità antropologicamente piuttosto che economicisticamente fondata, e ne garantirono la riperpetuazione. Il PCI combatté quel fenomeno, ma non poté non esserne sfiorato.



Il libro di Festa è il canto doloroso di come in quel contesto poté affermarsi via via la disgregazione sempre più profonda del patrimonio morale di un comunismo collante sociale, emancipatore e integratore anche degli immigrati che giunsero in quegli anni in Lombardia e che il PCI seppe trasformare in militanti tra loro legati da affinità amicali e rispettosi della legge e dell’ordine più di quanto comunemente si pensi e si sia pensato.

Ed è proprio in questo intreccio tra valori rivoluzionari e valori nazionali che si dipana il segreto ordito del libro sapientemente intessuto da Festa, con effetti sconcertanti che non mancano di illuminare legami internazionali in quella lotta per il dominio del mondo che ora è evidente sotto i nostri occhi. Non togliamo il gusto della sorpresa al lettore. Ma non si può non dire che quest’ultima fatica di Festa disvela un disagio che non è morale, ma è quello della nostalgia affettiva di un mondo di valori ormai scomparsi e vivi, tanto più per questo, in un ricordo che tocca livelli di un intimo dolore che solo la moralità conservata ancora gelosamente dall’autore e dai suoi più fedeli lettori – tra i quali ha l’onore di annoverarsi chi scrive – può consentire con vivo rimpianto di comprendere.

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