Secondo gli studiosi del dizionario Collins, la parola dell’anno 2022 è “Permacrisis”, ossia la sensazione di vivere in un permanente periodo di crisi. Il vocabolo è stato coniato negli anni 70, ma oggi è entrato con forza nell’uso comune: “riassume in sostanza quanto sia stato orribile il 2022 per così tante persone – spiega Alex Beecroft, direttore di Collins Learning, ripreso dal Corriere della Sera -. La lingua può essere uno specchio di ciò che sta accadendo nella società e nel resto del mondo e quest’anno ha lanciato una sfida dietro l’altra. Siamo tutti in un continuo stato di incertezza e preoccupazione con gli sconvolgimenti causati da Brexit, pandemia, maltempo, guerra in Ucraina, instabilità politica, crisi dell’energia e del costo della vita […]. La nostra lista [di parole dell’anno] riflette lo stato del mondo in questo momento. Non sono molte le buone notizie”.



A ben vedere, le cose procedono con questo ritmo almeno da inizio secolo; l’11 settembre (non c’è bisogno di specificare l’anno) ha segnato indubbiamente lo spartiacque tra un prima e un dopo, facendoci attraversare pressoché soltanto passaggi critici: invasione dell’Afghanistan, poi dell’Iraq con perdite ingenti di vite umane; crisi economica nel 2007, insolitamente lunga fino ad estendersi al debito sovrano mettendo in ginocchio l’economia di diversi Paesi; presa di potere dell’Isis, primavere arabe e diffusione di sanguinosi atti terroristici; emergenza epidemiologica e, quasi esattamente al termine di essa, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’avvio di un conflitto che sembra prolungarsi sine die, con l’incombenza di minacce nucleari.



L’instabilità ci è entrata traumaticamente nel sangue e non consente quasi più a nessuno di vederci chiaro, nemmeno a coloro a cui, in genere, attribuiamo capacità di leadership, pretendendo che ci cavino fuori dal tunnel (è forse qui la radice di tanta acredine sociale nei confronti dei politici, dopo la delusione della speranza eccessiva riposta nei loro programmi?).

Prendiamo la situazione economica, dominata dalle preoccupazioni dei banchieri centrali di ridurre l’inflazione, a costo di aumentare in modo persistente e massiccio i tassi di policy. Anche loro però si muovono a vista, come mostrano le recenti parole di Powell sulle prossime azioni della Fed, che saranno prese in base ai precedenti rialzi e all’effettiva situazione economica, salvo subito precisare che il livello target dei tassi potrebbe essere più elevato di quanto ci si aspetti; oppure Lagarde, che rinuncia alla farward guidance, varata prima dell’estate, allineandosi alla Fed, cioè demandando le decisioni di politica monetaria di volta in volta al board della Bce. Tradotto: nemmeno noi sappiamo bene cosa fare!



Politici ed economisti si stanno scervellando per adottare misure di sostegno (e ben vengano!), ma, a mio parere, il problema vero è quasi generalmente rimosso: c’è una guerra in Europa, o, se si preferisce, alle soglie dell’Europa e il solo “obiettivo di spesa” dovrebbe essere costringere tutti i contendenti a sedersi attorno ad un tavolo, guardandosi negli occhi e cercando di porre fine ad uno scempio che rischia di costare molto più caro di quanto si possa immaginare. L’industria bellica, tuttavia, produce ordigni sempre più sofisticati e distruttivi e cerca febbrilmente campi di battaglia per esprimersi e sperimentare sul campo le ultime invenzioni.

Non va diversamente con la vita interiore dell’uomo. Anche qui, possiamo servirci di “neologismi” (o termini riferibili a nuovi fenomeni). Con l’espressione “quiet quitting” (uscire in silenzio) si indica la tendenza a “lasciare” il lavoro, senza licenziarsi, abbandonando quell’idea patibolare, dominante negli scorsi decenni, del lavoro come una sorta di altare sacrificale in vista del successo  e della realizzazione personale. Siamo di fronte all’evoluzione – non necessariamente negativa – del fenomeno della “great resignation”, che nel 2021 ha portato alle dimissioni di circa 50 milioni di lavoratori americani. Alcuni esperti attribuiscono ciò alla crisi del concetto tradizionale di leadership: “Con la pandemia e la guerra – dice un consulente HR alla stampa – il mondo è entrato in una fase che l’autore James Cascio ha chiamato Bani [altro neologismo per brittle – fragile –, anxiousnon-linearincomprehensible]… I lavoratori sono entrati in uno stato d’ansia perenne, in cui ci si trincera dietro quello che si conosce, non si prendono rischi, non si fa un passo in più”, segnando la fine dello stile di leadership a cui eravamo abituati, improntato al comando e al controllo.

Lo stesso concetto, in fondo, può essere esteso alla sfera privata. In Italia sta crescendo la quota dei single, che a Milano raggiunge il 50% dei nuclei familiari, ovviamente per diversi motivi. Si può osservare che il fenomeno non si limita a palesare una fase di transizione in attesa del partner (giusto o nuovo), ma nasce dalla dissoluzione di istituzioni storiche e sacre, quali il matrimonio, e agisce come fattore di ripensamento delle proprie relazioni sociali: incontri anche one-shot passano attraverso il circuito digitale, giudicato meno impegnativo e più ampio, ma alla fine rischiano di non trovare mai un porto reale, o addirittura di sfociare nella violenza suicida, come testimoniato da recenti, tristissimi, fatti di cronaca. Anche qui – secondo lo scrittore Paolo Borzacchiello – si può utilizzare una nuova parola: “célibattant”, unione di “célibataire” (single) e “combattant” (combattente) a sottolineare la dimensione che questo stato di vita deriva da una decisione personale sulla propria esistenza, non da eventi subiti passivamente.

Tornando alla nostra “permacrisi”, vorrei aggiungere che la crisi diventa permanente anche quando ad essa ci si abitua, provando addirittura il piacere sadico di vivere sull’orlo del collasso: fuggire da sé stessi è in fondo più comodo che fermarsi a pensare, guardarsi, affrontarsi. “Ormai possiamo fare ciò che vogliamo e la sola domanda è: cosa vogliamo? Al termine del nostro progresso ci troviamo dov’erano Adamo ed Eva: tutto ciò che abbiamo davanti è adesso il problema morale”, dice Max Frisch. I tempi sono forse maturi per tornare alla domanda così essenziale posta dallo scrittore.

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