Ci sono romanzi che cercano risposte alle grandi domande. Figlie dell’oro di Flaminia Colella (La Lepre Edizioni, 2024) è uno di questi. Esiste un oro che rende preziosa la vita? E c’è una trama, da noi solo intuibile, che appartiene a qualcosa di più alto dei nostri giorni?
Alcuni scrittori riescono a parlare dell’indicibile, come Flaminia Colella in questa sua opera, e come Emily Dickinson che in una sua poesia scrive: “Ricca! Ero io in verità a essere ‘ricca’ –/ a prendere il nome dell’Oro –/e ad avere l’Oro – in solide barre –/ La differenza – mi rendeva forte”. È della minuta poetessa di Amherst il libro che Serena, voce narrante in Figlie dell’oro, riceve dalla nonna Delia dopo la sua morte e sfogliandolo cerca un appiglio che le restituisca un battito regolare e annulli i suoi timori.
Il tempo non è lineare. Procede in avanti, dentro le lettere che la nipote scrive alla nonna parlandole del vuoto e di quanto sia spaventoso “rischiare l’amore”; ci sono lampi della loro privatezza, delicata e vivace – e una costruzione di una dimensione altra, per mezzo della scrittura, nella quale le due donne dialogano e si stringono ancora e per sempre. Procede a ritroso, il tempo, quando Serena ripercorre l’amore tra Carlo e Delia che, appena diciassettenne, si trovò in fin di vita e l’uomo, medico e suo futuro marito, la salvò. Un amore non facile (quale amore lo è?), segnato dal dolore fisico di Delia e dall’inquietudine di Carlo, benché rinvigorito da viaggi avventurosi in Paesi lontani. Ma Delia non conosce paura. Mentre Serena legge e comincia a ricordare, la rivede con la sua “fede, profonda, nelle cose che continuano a sorgere (…)”.
C’è un’altra donna ancora nella storia, è Gabriella, l’insegnante di pittura di Delia, che la spingerà – riconoscendo la pena dei suoi occhi – a far prendere forma a un dipinto: sarà visione e fiuto di un disegno indecifrabile e grandissimo. Facendosi strada tra le pagine del libro regalatole dalla nonna, Serena rintraccia nello spirito della Dickinson “ironico, tagliente, capace di farsi largo tra la cenere e il vuoto” delle affinità con l’animo di Delia e si allontana lentamente dal nero, avanzando sull’intreccio di segni di cui sono disseminate la sua vita e quella delle tre donne che in una o più dimensioni le camminano accanto con “l’oro negli occhi”, tutte contro il vuoto.
Intorno ai diversi momenti della narrazione appaiono molti luoghi: Roma, la Sicilia, l’Abruzzo, gli ospedali, il lago, il mare, un paese a picco sull’Atlantico e altri scenari descritti in modo nitido e suggestivo. L’autrice costruisce la storia muovendosi con grazia e sicurezza dentro i racconti di Serena, le epistole scritte alla nonna e le poesie della Dickinson che fioriscono tra i capitoli illuminando un romanzo dove tutto è presente: tremore e desiderio di fuga, il bianco dell’indolenza, l’incapacità di trovare una direzione e poi l’amore, imperfetto e lucente, prezioso proprio come l’oro, che rintraccia la strada e fa presagire uno spazio oltre il tangibile.
Il lessico è ricco e potente, poiché le parole sono scelte con cura. Non si tratta di un linguaggio ricercato o artificioso, ma dell’esigenza di trovare vocaboli esatti che riconsegnino precisamente ciò che ha accolto lo sguardo di chi scrive.
“A te, che insegui l’oro” recita l’epigrafe del romanzo di Flaminia Colella. Figlie dell’oro è per chi, come Emily Dickinson, non si stanca di rincorrere le scie fulgide e misteriose dell’esistenza, anche nelle sue curve più buie.
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