Mai come in questa epoca moderna mettersi in viaggio (ovviamente in epoca pre pandemia) è diventato di moda, anzi una moda. Diventando moda, il viaggio ha perso il suo significato più profondo. Basti vedere come il Cammino di Santiago de Compostela, vecchio di secoli, sia diventato una meta turistica come mille altre. Anzi: una sorta di sfida a sé stessi e agli altri, per dimostrare di avere forze fisiche e psichiche superiori. E’ andata perduta quella bellezza, quel mistero e anche quella umiltà che ha animato per secoli i pellegrini, diretti a una meta. Per dirla alla Jung, “L’essenza del viaggio è trovare il Sé, ma come Altro”. Il viaggio secondo la lettura junghiana, è la ricerca di radici e identità. Ma nel viaggio, in realtà, “l’Io è L’Altro”.
È un andare verso l’Altro senza coltivare intenti coercitivi sul suo annullamento, sulla soppressione dell’eterogeneità, ma neanche dissolvendosi nella sua estraneità, liquidando l’identità collettiva nella banalità in stile new age, il cui livellante assecondare le capacità medie delle folle finisce per essere una nuova forma di massificazione.
Questa differenza l’ha ben capita Fausto Leali (non il cantante, ma medico ospedaliero e cardiologo milanese, giornalista e critico musicale) che nel suo esordio letterario (Finis Terrae, tutte le strade portano verso il mare; La memoria del mondo libreria editrice, 340 pagine, 16,00 euro) illustra e approfondisce in maniera mirabile il concetto di “viaggio”.
Lo fa sin da subito, nella prima pagina del primo capitolo, quando recupera le celebri parole di Jack Kerouac in Sulla strada, quasi sempre non capite nel loro vero significato: “Dove andiamo? – Non lo so, ma dobbiamo andare.” Per Leali, queste parole non hanno un significato nichilista, negazionista, tutt’altro: “Ci saremmo detti quanto manca, che la bellezza appartiene già alla strada (…) C’è un punto interrogativo (…) che ha bisogno di essere tenuto desto, per rifuggire l’ansia e l’incertezza del viaggio e scoprire al contempo ciò che esso ci rivelerà di sorprendente”. Il viaggio cioè contiene una bellezza nel suo stesso viaggiare, non necessariamente nella meta. D’altro canto la vita è un viaggio essa stessa, e la bellezza è nel fare questo viaggio.
Si sviluppa così una lettura di grande fascino, grazie a uno stile limpido pieno di curiosità, malinconia, che avvolge il lettore e lo pone idealmente a fianco dell’autore nei suoi viaggi, compiuti per lo più nell’amata Francia, dalla Normandia alla Costa Azzurra a Parigi, fino alla Terra Santa e al Cammino di Santiago de Compostela.
Leali è capace di cogliere ogni più piccolo segno di quanto gli capita di vedere, segno di una attenzione e passione al reale. Meravigliose le descrizioni delle piccole cittadine costiere francesi, delle spiagge del D-Day, così come delle imponenti cattedrali gotiche, facendole gustare al lettore, ma anche e soprattutto quei 50 chilometri percorsi ogni giorno per recarsi in ospedale, ascoltando le sue canzoni preferite (da Dylan a Van De Sfroos agli scozzesi Runrig), meditando sull’incontro quotidiano con il dolore, la malattia, la morte. Cose che non rifugge, ma assume nella sua interiorità tenendo, sempre, aperta la domanda. “Mi aspetta su quelle vie di rock’n’roll che chiamano corsie d’ospedale. Strade di cui non conosco ancora il nome. Luoghi di dolore, così ordinario eppure sempre nuovo”.
C’è “la cronaca ai tempi del Coronavirus”, naturalmente; c’è l’incontro con Chiara Badano, Chiara “Luce”, ragazza colpita da un tumore a soli 17 anni e morta poco dopo, dichiarata beata nel 2010. Tutto, per Leali, concorre a disegnare un quadro che prende corpo nel compiere il suo viaggio, a qualunque latitudine e in quassia voglia dimensione.
Un viaggio compiuto con una compagnia ben precisa, quella della sua famiglia, soprattutto la moglie, volto sempre presente e identicativo, perché da soli ci si disperde.
Questo viaggiare porta alle considerazioni finali: “Dov’era la strada, quella che portava a casa? Non la trovavo più e stavo rischiando di perdermi, Era davvero quello, il mio desiderio? Ritrovarla, anche stavolta? Quante strade avevo percorso sino allora? Quanti lampi nel buio e ferite nella notte avevo visto, lungo paesaggi in riva al mare, dentro volti incontrati nelle corsie d’ospedale? (…) Quanto avevo compreso nel poco che che avevo vissuto in pienezza e verità? Quante rotte avevo cambiato, caccia di bellezza e nell’attesa che la realtà educasse il cuore, scoprendo in fondo che la strada non andava mai cercata perché era lei che ci veniva incontro da sé?”. Ecco, questo il punto, che Leali scopre nelle ultime pagine. “Accesi l’autoradio: c’erano i Runrig che cantavano di un posto sotto al sol, da cercare, dove i cuori vecchi ma gloriosi potessero restare giovani per sempre. Sorrisi, felice più di prima e mi rimisi in viaggio. La musica accompagnava ancora il mio cammino”. Buon viaggio, con queste certezze nel cuore.