Ad una prima lettura, la poesia di Umberto Fiori potrebbe apparire come la descrizione di una normale scena quotidiana, l’inquadratura di un film già visto e, perché no, la foto in bianco e nero conservata in un vecchio rullino.

Ed effettivamente sarebbe difficile affermare il contrario: la poesia di Fiori è proprio questo, la descrizione, neanche troppo minuziosa, del quotidiano. Ma, allora verrebbe da chiedersi, cosa rende la sua poesia, una poesia perfettamente riconoscibile? Una poesia con un timbro chiaro, se non inconfondibile?



La risposta sta in una sola parola, o meglio, in un solo avverbio: “poi”. Infatti la poesia fioriana è una poesia del poi. Il suo comporre porta con se un marchio che, in questa sede, potremmo definire di “eccezionalità nel quotidiano”. Questo perché quel poi, che così tanto si ritrova nelle sue prime opere, nello specifico in Esempi (1992) e Chiarimenti (1995), rappresenta il crac che precede l’eccezionalità, il miracolo.



Il miracolo di cui stiamo parlando è il vedersi, il guardarsi, il dialogare, in altre parole, l’accorgersi – fosse solo per un attimo, il tempo del miracolo – che la realtà c’è e che, la parola, il dialogo non va perso in se stesso ma può, alle volte, essere accolto e ferire, provocare. 

Come detto, Fiori, intravede l’accadere di questa eccezionalità in scene del tutto comuni, quotidiane. È interessante notare come prima dell’accadere del fatto che rompe la tragicità del vivere piatto quotidiano, Fiori, con parole poetiche semplici e consuete, ce lo mostra. Ed è proprio in queste descrizioni che si vede la sua maestria nello scrivere, non si leggono le scene, ci si è completamente immersi forse, addirittura, visivamente immersi. Questo perché il poeta intravede e, magari, ha direttamente sperimentato, la drammaticità della parola che non scalfisce, insomma, di una parola che non è vera, pura – potremmo anche dire semplice – comunicazione. Ed effettivamente a leggere i versi che sempre precedono il poi – o anche quelli in completa assenza di un poi – sembra, usando un paragone forse un po’ coraggioso ma sicuramente intrigante, di assistere alle scene, di vedere i personaggi messi in scena da Nanni Moretti in Ecce Bombo: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. O ancora, e forse in maniera più eclatante, di leggere i versi di Chiedo scusa se parlo di Maria di Giorgio Gaber: 



Non è facile parlare di Maria
ci son troppe cose che sembrano più importanti
mi interesso di politica e sociologia
per trovare gli strumenti e andare avanti
mi interesso di qualsiasi ideologia
ma mi è difficile parlare di
Maria la libertà
Maria la rivoluzione
Maria il Vietnam, la Cambogia
Maria la realtà.
Se sapessi parlare di Maria
se sapessi davvero capire la sua esistenza
avrei capito esattamente la realtà
la paura, la tensione, la violenza
avrei capito il capitale, la borghesia
ma la mia rabbia è che non so parlare di
Maria la libertà
Maria la rivoluzione
Maria il Vietnam, la Cambogia
Maria la realtà.

Ma quali sono i presupposti per l’accadere del miracolo e, questo, chi coinvolge? Tutti. Infatti non si trova mai in Fiori una caratterizzazione del personaggio messo in scena che vada oltre a “un tale; un tizio”. In altre parole non c’è una gerarchia sociale, una corsia preferenziale per uno piuttosto che un altro. Tutti in potenza possono essere gli eletti, nessuno escluso. Ma l’eccezionalità vera del fatto, quello che da potenza lo fa diventare in atto, è che non serve alcuna capacità perché questo accada, in quanto risiede nei più piccoli “imprevisti” quotidiani, come può essere una lite in un qualunque luogo di Piazzata:

Se di colpo giù in piazza
in mezzo al chiasso
qualcuno alza la voce
e un’altra voce, più forte,
gliele ricanta, e si mettono a urlare
insulti e minacce, è come
se mi chiamassero per nome.
Si capisce ben poco, quasi niente
con gli alberi di mezzo, dal quinto piano,
ma io non chiedo al mio vicino
-anche lui sul balcone- perché lì sotto
si mangiano la faccia. Lo so bene
cosa li fa gridare. Lo riconosco
adesso, mentre mi prende
-anche me- per la gola, e mi tiene
qua sopra, senza fiato:
è grande, e non ha una ragione.
È che ognuno al mondo sta lì
con il suo ingombro osceno. Mento, guance,
e gli occhi in fuori, e in mezzo a quel testone
il naso a becco, dicono: così
e in nessun’altra maniera.
Ogni momento uno ti si para
davanti, ti fa vedere come,
ti fa vedere chi
bisogna essere.
Così ce ne andiamo in giro
nei bar, sui tram:
ognuno un santo mistero
messo in piazza,
un esempio
che nessuno può seguire.
È questo lo spettacolo sfacciato,
la scenata che sale fin quassù.
*
Viene il respiro degli ippocastani
col buio. L’onda ci lascia.
da una finestra illuminata
anch’io lancio il mio urlo
e mi ritiro.

Siamo dunque di fronte a una lite che rompe un’armonia o, forse, sarebbe più corretto dire che rompe una armonia apparente, un’armonia passivamente accettata che, attraverso un filo invisibile, tiene insieme l’uomo e le cose, l’individuo e la realtà. Ma non basta. La realtà che corrisponde – anche se solo per un attimo fugace – può irrompere e scardinare l’abitudinario per farci, davvero, vedere l’altro e le cose.

Ed è proprio in questo miracolo tanto quotidiano quanto fugace che si può vedere il rapporto di Fiori con un grande rappresentante della tradizione novecentesca, Giorgio Caproni. Leggiamo i versi di Ribattuta tratta da Il franco cacciatore:

Il guardacaccia,
con un sorriso ironico

– Cacciatore, la preda
che cerchi, io mai la vidi.

Il cacciatore,
imbracciando il fucile:

– Zitto. Dio esiste soltanto
nell’attimo in cui lo uccidi.

“Dio esiste soltanto / nell’attimo in cui lo uccidi”. La realtà parla soltanto nell’attimo in cui è carnalmente e non ideologicamente discussa, l’altro esiste soltanto nel momento in cui irrompe e puoi guardarlo. Questa è l’opportunità quotidiana che ci è data, questo ci rende partecipi della nostra tragicità, questo ci permette, senza averne alcun merito o potere, di riconoscere un “io” e un “lui” dentro quella grazia che chiamiamo… imprevisto.