“Il telefono fisso squilla verso le sette del mattino: ‘Ciao, sono Giorgio. Non volevo svegliarti, ma sono già  due ore che mi hanno portato in una stazione della polizia… Pòta, mi accusano di spionaggio, mi sa che se non chiama qualcuno dell’ambasciata che gli spiega che lavoro per la Rai non mi fanno uscire di qui. Meno male che c’è almeno una stufetta, fuori sono meno 30, eh!’. Era l’inverno del 2002 e Giorgio Fornoni stava facendo il giro dei laboratori di armi biologiche della Russia: si trovava nella sperduta Kol’cóvo, a 50 chilometri da Novosibirsk, in Siberia”.



Queste poche parole della sua amica Milena Gabanelli descrivono molto bene Giorgio Fornoni, giornalista freelance bergamasco, tanto diretto e quasi ingenuo nelle sue indagini da essere temerario. È la prefazione al libro appena uscito Putinstan. Come la Russia è diventata uno Stato canaglia (Chiarelettere, 2024), che raccoglie una decina di anni di viaggi e di inchieste di primissima fattura in Russia firmate da Fornoni. Su La lettura, settimanale del Corriere della Sera, Marcello Flores ha scritto che Fornoni “ci fa capire il regime russo di oggi più in profondità di quanto non ci dicano molti ritratti che della Russia e di Putin sono stati fatti da quando è iniziata l’aggressione militare contro l’Ucraina”, due anni fa.



“La morte di Aleksej Naval’nyj, le elezioni presidenziali, ora il terribile attentato terroristico dell’Isis al Crocus City Hall di Mosca hanno acceso di nuovo i riflettori sulla Russia – dice Fornoni –. Io Naval’nyj lo avevo incontrato il 6 febbraio del 2012 durante una grande manifestazione pre-elettorale, migliaia e migliaia di persone sfilavano per le strade di Mosca. Sul palco con lui c’erano dissidenti e politici che scuotevano le coscienze. Il popolo voleva gridare contro la nuova rielezione di Putin”.

Lei si è interessato ad aspetti fondamentali della politica internazionale, come quello dell’energia, quando in Italia quasi nessuno ne scriveva.



Cominciamo col dire che io ho avuto la fortuna di avere due grandi persone che mi hanno accompagnato in questi viaggi: uno era Jacek Palkiewicz, un addestratore dei Servizi speciali russi, mi ha aperto tante porte perché conosceva bene sia quelli del KGB che altri personaggi importanti dell’apparato. Riusciva a trovarmi i contatti giusti. Poi, dove non si arrivava con le conoscenze si poteva arrivare “oliando”: l’importante era avere pazienza. Per esempio per riuscire a entrare a Severodvinsk, nel Nord del Mare di Barents, dove stavano smantellando i sommergibili nucleari dell’epoca sovietica, ci ho impiegato tre anni. Non è una cosa facile, devi seminare, e poi capire quando è arrivato il momento. L’altro che mi ha aiutato molto è stato il giornalista Andrej Mironov, morto poi nel 2014 nel Donbass, in Ucraina, mentre accompagnava Andy Rocchelli, il reporter di Pavia rimasto anche lui ucciso: Mironov era un punto di riferimento per molti giornalisti. Era davvero una miniera di conoscenze, ma più che altro aveva un animo sempre teso verso la giustizia, verso la dignità dell’uomo. Queste due persone mi hanno permesso di vedere cose, in Russia, di cui allora quasi nessuno si interessava. Nel 2007 ad esempio sono riuscito a mettere insieme l’inchiesta “La via del gas”. Sono stato a Novyj Urengoi, sul Circolo polare artico, il giacimento più grande del mondo, con le fiamme che si levavano altissime dalla pianura gelata, in un panorama surreale di chilometri di gasdotti e ciminiere d’acciaio. E ho cercato di capire le diramazioni della questione. Il gas è un tema sporco. Dopo anni, dopo tante insistenze, sono riuscito ad esempio a sapere il prezzo – 14 dollari ogni mille metri cubi – a cui il gas estratto in Kazakistan viene svenduto al consorzio russo subito oltre il confine. L’Ucraina già allora giocava a braccio di ferro con la Russia sul gas, e Putin voleva liberarsi del problema. Su questi temi sono in gioco interessi enormi, gli attriti tra Russia, Stati Uniti, Europa erano iniziati molti anni prima della guerra. A Dmitrij Muratov, direttore della Novaja Gazeta, una volta domandai com’era quel mondo: “È chiaro e limpido – mi rispose – come quello delle scommesse clandestine”. Un mondo sotterraneo dove girano tantissimi soldi. E infatti quel gas da 14 dollari noi in Europa arrivavamo a pagarlo 280 dollari, quindi 20 volte tanto. È un esempio non solo della speculazione, ma anche di come la Russia tenesse come in una tenaglia il mondo europeo.

Il giornalismo è un mestiere che tanti ormai fanno gironzolando sul web. Lei in Russia ci è andato davvero, tante volte. Come si fa a raccontare come stanno davvero le cose in un posto così illiberale?

Come diceva Anna Politkovskaja, che dal 2003 ho incontrato più volte prima che venisse uccisa, “io scrivo ciò che vedo”. Come fai a raccontare le cose, a provare le sensazioni se le affronti da dietro la tua scrivania? Sarebbe come giocare con un puzzle, e non è nel mio carattere. Viaggiando, poi, incontri le persone, ho conosciuto tanti capi guerriglieri, uomini violenti e senza scrupoli ma anche tante persone straordinarie, per esempio questi giornalisti russi che sono dei veri eroi, perché lavorare in Russia vuol dire lavorare su due prime linee: una è il fronte della guerra, l’altra è il fatto che nella hall del palazzo dove abiti può arrivare uno, come è successo alla Politkovskaja, che ti mette a tacere. Ma non solo lei, Natalja Estermirova era un’altra grande giornalista, o Dmitrij Muratov, al quale nel 2021 è stato assegnato il Nobel per la pace. Poi ovviamente quelli dell’associazione Memorial, Nobel per la pace 2022, Oleg Orlov, attivista in difesa dei diritti umani, che ora è stato condannato a due anni e mezzo di carcere. L’ho incontrato per la mia inchiesta sui gulag, dato che Memorial lavora proprio per conservare la memoria storica di quanto avvenuto nella Russia sovietica.

Lei come descriverebbe Putin?

È un uomo che non è mai sceso a patti con nessuno. Già alla fine del 1999, quando Eltsin gli passò le leve del comando, ha cominciato subito con il pugno duro. Lui stesso ha sempre detto: “O con me o contro di me”, e se non stavi dalla sua parte le cose diventavano difficili. Ai suoi soldati mandati a reprimere la rivolta dei ceceni disse: “Accoppateli nel cesso”. Quanta cattiveria! Quando ci fu l’assalto al Teatro Dubrovka a Mosca, nel 2002, non volle scendere a patti, fece lanciare gas all’interno e sono morte centinaia di persone tra ostaggi, guerriglieri, donne kamikaze. Dopo c’è stata la strage della scuola di Beslan, dove un gruppo di 32 separatisti ceceni occupò l’edificio sequestrando 1.200 persone: finì con 300 morti. Anche lì il capo guerrigliero tentava di trattare, ma sono entrati con i lanciafiamme. La stessa cosa quando c’è stata l’invasione dell’Ossezia del Sud, o per l’Abkhazia: Putin vuole portare un po’ tutte le ex repubbliche sovietiche di nuovo sotto il suo controllo, come è riuscito a fare con la Bielorussia, e all’inizio anche con l’Ucraina, con Janukovych.

Noi nelle democrazie siano abituati a pensare di raggiungere prima o poi un compromesso, Putin ragiona in un’altra maniera.

Putin dice ai suoi: andate avanti, non ci interessa nulla di quello che pensano in Occidente. Per questo se mi chiedono quando arriveremo alla pace in Ucraina rispondo che è difficile con questo andamento. Se negli Stati Uniti dovesse essere eletto Trump, anche se io sono assolutamente contro le sue idee, penso che sia l’unico che potrebbe prima o poi sedersi a un tavolo con Putin: Biden non lo farà mai, né Zelens’kyj. E così va a finire che le guerre vanno avanti, e oltre a morire decine di migliaia di persone, oltre a esserci distruzione e profughi, fra qualche anno l’Ucraina non si troverà in una situazione migliore rispetto al 2022: Putin voleva la Crimea e la zona di Donetsk e voleva che il governo ucraino diventasse filo-russo, e forse questa è l’unica cosa che non otterrà. Non è un discorso facile però. La cosa brutta della guerra è che fomenta “il ribollir dell’odio”, come diceva Grigory Pomerants, morto nel 2013. La guerra è così: quando inizia, si innesca una spirale d’odio che non riesci più a fermare.

Come a Gaza…

Esatto. Pomerants è una delle persone più importanti che io abbia incontrato nella mia vita. Uomo di immensa cultura, eroe della dissidenza sovietica, amico personale di Solzenicyn e di Salamov, era uno dei sopravvissuti agli orrori siberiani. Nel 2007 l’ho raggiunto in una dacia immersa nella foresta, a 80 chilometri da Mosca. A un certo punto mi guardò fisso negli occhi e mi disse: “Vedi, Giorgio, gli uomini di solito conoscono il male solo su scala limitata e per esperienza diretta, quando si presenta sulla soglia di casa. Un male così diffuso, una conoscenza del male tanto ampia come è avvenuto nel XX secolo non è comprensibile all’uomo medio. L’uomo medio vive nel suo mondo ordinato, attribuisce il male a qualche fattore che non lo riguarda. Bisogna far vedere il vero volto, il volto disgustoso del male, perché la gente lo rigetti. E questo è il compito della cultura”. Quelle parole mi risuonano ancora nella mente come un funesto presagio della realtà più attuale: “Con i mezzi di distruzione di oggi, le armi di cui dispone l’umanità – mi disse –, conservare dentro di noi il ribollire dell’odio, ritrovare sempre un pretesto, un’occasione di vendetta può portare alla fine dell’umanità intera. Ci troviamo alle soglie di pericoli tremendi, perché le minacce, le forze meccaniche e tecniche di cui la nostra civiltà dispone sono talmente grandi che rendono indispensabile un uomo diverso, un uomo nuovo, umile e dal cuore aperto. Tutta l’educazione andrebbe indirizzata proprio a questo”.

Lei ha sottolineato la potenza militare della Russia, la pericolosità del suo arsenale chimico e biologico, che ha potuto vedere da vicino.

A Kol’cóvo c’è il centro di armi biologiche più grande al mondo, lì sono conservati gli stami di trecento agenti patogeni mortali, dal vaiolo al Marburg, potenzialmente capaci di distruggere l’intera popolazione mondiale. Poi ci sono le armi chimiche, sette depositi. Io ne ho visitato uno, il più grande, a Pochep, città al confine tra Bielorussia e Ucraina: l’Italia stessa ha stanziato 360 milioni di euro per il suo smantellamento. Putin dice di averlo dismesso ma non è così, non è stato smantellato nulla, lui ha ancora armi chimiche e le usa, lo abbiamo visto con l’assalto al Teatro Dubrovka. Poi c’è l’armamento nucleare. La Russia è talmente armata, con mezzi vecchi ma anche nuovi, che bisogna stare veramente attenti.

All’interno del Paese esiste un dissenso?

Gli oligarchi che non ascoltano Putin e vogliono fare i furbi lui li fa fuori, ne ha eliminati tanti: Michail Chodorkovskij, magnate del gas, con la Yukos, che nel 2003 era l’uomo più ricco di Russia, oggi vive a Londra. A un certo punto voleva anche tentare di andare al governo, ma lo hanno accusato di frode fiscale, lo hanno messo al muro e hanno venduto le sue proprietà. Tanti altri sono finiti uccisi. La stampa e la televisione sono al 100% ormai in mano a Putin. La gente tante cose non le sa perché non vengono raccontate.

Io ho conosciuto in Occidente Elena Zhemkova, tra i fondatori di Memorial, e mi ha colpito la sua forza intellettuale e morale: sono persone migliori di noi.

È così. Naval’nyj è stato avvelenato in Germania, eppure quando è stato salvato ha voluto rientrare in Russia, sapendo come sono le carceri lì. Io ho visitato quelle di massima sicurezza per la mia inchiesta sulla pena di morte nel mondo: se finisci davanti ai tribunali o nelle carceri, in Russia non la passi liscia. Muratov mi diceva che i tribunali, per quanto riguarda le piccole cose dei cittadini, funzionano, ma quando ci sono delle situazioni politico-economiche importanti lì entra la politica, entra lo Stato.

Già: perché Naval’nyj è rientrato in Russia?

Non era un grande politico. Se avesse potuto concorrere per diventare presidente, non avrebbe vinto. Però sosteneva l’idea della libertà, l’idea straordinaria di riportare la democrazia. Ma non è l’unico perseguitato: hanno fatto chiudere Novaja Gazeta, che era una delle poche voci libere, hanno chiuso Memorial: Putin non vuole nessuno contro. Lo domina un’ambizione neoimperialista per la quale potresti quasi paragonare la Russia di oggi a quella di Stalin.

C’è uno strano parallelo fra i dissidenti storici dell’URSS come Solzenicyn o Sacharov e questi di oggi. Apparentemente sono oppositori di due regimi molto diversi, però alla fine la Russia si ritrova sempre con un potere molto duro e con una grandissima dissidenza.

Questo parte da lontano, dal periodo autoritario degli zar. Poi hanno governato i bolscevichi: Mironov mi raccontava che sotto di loro tutti dovevano essere uguali, se arrivavano in una casa dove c’era un gabinetto lo buttavano nel cortile perché tanti non se lo potevano permettere, e allora in nome dell’egualitarismo tutti dovevano farne a meno. Questo era il concetto che avevano del socialismo. Poi c’è stato l’Holodomor, la terribile carestia in Ucraina del 1932-33, provocata deliberatamente: 4 milioni di morti. Pomerants diceva che nel periodo di Stalin ci furono addirittura dai 40 ai 60 milioni di morti. Ora c’è Putin.

Dalle pagine del suo libro traspare però anche la bellezza di questo Paese: sembra di attraversare ancora la Russia di Tolstoj…

Un Paese straordinario, di grande cultura. Pieno di gente laureata, che non si può esprimere perché ha paura. Ma anche quando ho fatto il giro dei gulag, la Kolyma, le Isole Solovki, ho trovato gente che ama la propria terra, e reclama di poter vivere in un modo diverso. È un popolo abituato a soffrire, molto più di noi europei, capace di resistere a tutto. Bisogna tornare alla pace, l’Europa se vuole stare bene ha bisogno che finisca questa guerra in Ucraina, e ha bisogno anche delle ricchezze naturali della Russia, che è una miniera in tutte le materie prime. Tra una ventina d’anni il problema dell’acqua sarà molto serio nel mondo, e lo Stato più ricco d’acqua è la Russia. Il Bajkal è il bacino di acqua dolce più grande e profondo del mondo. Se mi dovessero chiedere dove vorrei vivere, in Cina, Russia o America sceglierei il mondo della democrazia, non ho dubbi. Però se dovessi scegliere per le qualità di un popolo, allora andrei in Russia. Ci sono persone di un’umanità straordinaria. Quando ero un ragazzo la maestra mi diede un tema da svolgere: “Guardando dalla finestra…”. Ma fuori dalla mia stanza, in Val Seriana, io non vedevo niente, pochi metri più in là c’era il muro della casa di fronte. Nel 2006 mi sono ritrovato sulla Transiberiana, che in sei giorni attraversa nove fusi orari, ho guardato fuori e osservavo le isbe coperte di neve perse in quel territorio immenso, nel silenzio, i loro camini che fumavano. Anche quella volta ero con Andrej Mironov, e lui mi raccontava della sua infanzia a Irkutsk, dove ancora nel 1916 si parlava francese. È un mondo che ti fa sognare, di notte, nelle curve, vedi il locomotore davanti e la coda del convoglio che gira dietro di te. Sono stati dei bei momenti. E ho pensato: “Ecco, adesso, dopo tanti anni, mi sono ritrovato finalmente a scrivere quel tema che mi aveva dato la maestra”.

(Carlo Dignola)

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