Sarebbe davvero un peccato, chiosava durante un rarissimo intervento pubblico lo scrittore italo-americano John Fante, se ai giovani venisse tolto persino il diritto di restare delusi dal loro tempo. Il romanziere non guardava al nichilismo rattrappito e depressivo e ancor meno al sincero autolesionismo di chi però, non trovando risposte a se stesso, rinuncia a cercarne.



Pochi libri nella letteratura italiana esprimono con la stessa energia de Le ultime lettere di Jacopo Ortis questo pregio intimo della delusione desolante – quella alla quale, ahinoi, il protagonista risponde suicidandosi, ancorché non con la superficialità di chi ha in spregio la vita, ma con la dignitosissima tempesta interiore di chi se ne sente sopraffatto.



Ugo Foscolo realizza una pietra miliare, un po’ perduta e obliata, di scrittura italiana, ben oltre i motivi politici pur presentissimi nell’opera. Se non è corretto dire che li introduca del tutto ex novo (sappiamo che così non fu), certamente valorizza e illumina due espedienti letterari che a vario titolo saranno di grande smalto nei due secoli successivi: la tecnica del romanzo epistolare e l’invenzione di un ritrovamento cartaceo, di una pubblicazione promessa e attuata con pochi rimaneggiamenti, come incipit dell’azione oltre che del patto narrativo col lettore.

Il romanzo era stato persino mal descritto come un’ibridazione non riuscita, estetica e ideologica, tra Alfieri e Goethe, ma non sembra proprio il caso e da tempo la critica letteraria, non solo italiana, ha saputo rovesciare l’inconsistenza di un verdetto così sciatto.



Peraltro, Foscolo è nell’impegno politico un avventuroso militante del suo tempo (repubblicano, giacobino), ma inevitabilmente un pontiere sul piano dell’etica e della sinestetica letteraria. Alla provenienza metrica e figurale che viene dal neoclassicismo fa seguire il primo nucleo di uno scrivere romantico che sarebbe limitante concludere nel patriottismo, pur perseguito. Intendiamoci, poi, sui termini: quel “patriottismo”, per idealità culturale e spirito di sacrificio, in nulla ci pare ricordare i nostri sovranismi, populismi e micronazionalismi.

Gli studiosi più attenti hanno molto scritto sull’antefatto sostanziale delle Lettere, se Foscolo partisse dalla delusione amorosa unita al percepito tradimento di Napoleone per la cessione del Veneto all’Austria con il trattato di Campoformio o, piuttosto, se non lo avesse davvero così profondamente toccato il reale accadimento cronachistico – di cui resta la trama della filiera giudiziaria – del suicidio di Girolamo Ortis, studente uccisosi pochi anni prima della pubblicazione dell’opera nel 1802.

Sia ben chiaro: questi approcci ci sono molto utili per capire i motivi biografici, i sottesi temi esistenziali e le simmetriche dinamiche di contesto. In poco, invero, appaiono esserci utili per colmarci dell’intima, alluvionale, carica emotiva dell’opera.

Particolarmente valida, inoltre, è da ritenersi la rilettura del Foscolo per decodificare i mutamenti in corso nella coscienza giuridica, tra la fallita illusione palingenetica del XVIII secolo e i rassicuranti omaggi positivistici di gran parte del XIX. Mutamenti di cui finirono imbevuti almeno in parte tutti, restauratori e rivoluzionari.

Come nei Sepolcri il Foscolo lumeggia una fondazione etica intergenerazionale dello ius sepulchri, basata sulla virtù del ricordo e tuttavia non dimentica della trascendenza, così nelle Lettere il poeta mette in evidenza ipocrisie e fallacie di uno ius connubii vincolato alle appartenenze di Stato e sangue. Nel saluto estremo di Jacopo non solo morte, ma dinamica, appello al giusto, ricerca della vita, smisurato amore per la lealtà: “vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito?”.