Un celebre verso di una delle più belle canzoni di Claudio Chieffo stabilisce che l’uomo cammina, cioè guarda avanti e si muove, quando sa bene dove andare.
Correva l’anno 1975. I movimenti studenteschi erano al loro apice ma il terrorismo stava già placando molte delle inquietudini di quei giovani che iniziavano a chiedersi dove portasse la loro rivoluzione. Il tema del senso, che implica sia il significato che la direzione, diventava fondamentale: senza l’intuizione di un fine buono è difficile mettersi in moto. “La cosa più terribile – avrebbe poi fissato don Giussani ne Il senso religioso – è porsi di fronte alla realtà con una ipotesi, non dico negativa, ma semplicemente sospensiva; non ci si muove più” (p. 178).
È una questione che, nel grande campo della filosofia, si era già destata in precedenza quando, a seguito del fallimento del positivismo (che aveva portato a due guerre mondiali) e alle sue numerose varianti (come l’idealismo, che disprezzava la realtà creata) era sorto l’esistenzialismo: un filone eterogeneo che poneva esplicitamente la domanda del senso. “Chi ha un perché può sopportare quasi ogni come” scriveva Friedrich Nietzsche. Si tratta di una frase ripetuta spessissimo dallo psichiatra viennese Viktor Frankl che, come altri nomi di esistenzialisti nel campo della terapia (Biswanger e Boss), aveva aiutato molti giovani ad evitare il suicidio quando la vita sembrava non avere più alcun senso.
Dunque, il novecento – tra le altre cose – ha riportato in evidenza che la libertà umana (tema cardine della modernità) non è tale se manca di responsabilità: libero è chi sceglie il bene. Sono le ragioni di bene a far muovere le energie interne (che una volta si chiamavano passioni e volontà) o, detto ancora altrimenti, solo un fine buono è in grado di catturare la nostra adesione, per attrazione. Al contrario, “Povera voce, di un uomo che non c’è, la nostra voce se non ha più un perché”, per citare un’altra canzone ancora più datata nel tempo. Quindi il punto è scoprire il motivo per cui vale la pena lavorare, studiare, morosarsi…cioè vivere.
Ma è ancora così, oggi? La realtà sembra dirci il contrario. Prendiamo, ad esempio, il tema del nichilismo dei giovani. Come abbiamo avuto modo di leggere sulle pagine di questo giornale, sembra che molti ragazzi non si muovano neppure per delle mete belle, attraenti, giuste. Non bastano gli inviti, le motivazioni e argomentazioni per farli appassionare. Le conoscono bene, eppure restano immobili. Sono spenti, passivi, apatici. Solo il cellulare li coinvolge, zombizzandoli. E spesso dichiarano di annoiarsi anche in quello (li possiamo capire).
Gli amici non sono più fonte di attrattiva: quando stanno assieme, i ragazzi si isolano ognuno col proprio dispositivo. Parlare significa annoiarsi, gli argomenti in genere sono sempre gli stessi e banali (calcio, donne, vestiti, sballo, irridere gli altri). Se si attaccano a qualcosa lo fanno in modo estemporaneo e furtivo. Poi, come se non reggessero lo slancio, ritornano nella posizione passiva precedente. Il tentativo degli adulti di smuoverli difficilmente li coinvolge, ma neppure sembra funzionare ciò che invece andava alla grande nel novecento, ovvero le buone ragioni, una presentazione coinvolgente, la sfida alla libertà. E questo, perché accade?
Provo a dare una risposta sulla base di quello che sto scoprendo come psicoterapeuta. La coscienza del senso si rivela insufficiente perché manca il carattere. La “generazione z” (ma in parte anche quella precedente, la “y” o “millennials”) è figlia di genitori che hanno condotto una vita senza senso. Sono i figli dei divorzi e dei sentimenti di una notte, sono gli eredi dei girotondi e della ricerca del posto fisso, sono i seguaci delle domeniche davanti al campionato e delle feste a droghe, sesso e rock and roll. La loro cultura è stata formata da quei valori che respirano nelle piccole scelte quotidiane degli adulti che li circondano. Hanno sperimentato – ben prima di diventarne coscienti – che il senso della vita è misero e faticoso a trovarsi. Lo hanno interiorizzato. Alcuni di loro lo raccontano esplicitamente: “I miei sono stati sbandati tutta la vita, perché mai non dovrei esserlo io?”.
L’effetto di questa mancanza di senso generale, di senso della vita potremmo dire o dell’esistenza, del perché valga la pena lavorare, impegnarsi, costruire, muoversi… ha intaccato la formazione del carattere delle nuove generazioni, che si ritrovano sguarnite degli strumenti principali per vivere. L’erosione delle fondamenta (il senso) fa ora crollare anche il primo piano, quello del carattere, che resisteva nelle generazioni precedenti. Che cos’è il carattere? È la risposta abituale di preferenza che agiamo nei confronti di una situazione, insegnava lo psicoterapeuta Rudolf Allers. Se ogni volta che ci presentano qualcuno di nuovo facciamo i timidi, avremo un carattere timido. Se ogni volta che c’è una prova ci buttiamo a pesce, saremo temerari. Eccetera.
La struttura del carattere corrisponde all’esercizio delle virtù che lo psicologo “positivo” Martin Seligmann ha infatti chiamato “forze del carattere”. Ebbene, ce le ricordiamo le virtù cardinali? La prudenza, che serve per ben decidere ed agire bene; la giustizia, che aiuta a regolare i rapporti; la fortezza e la temperanza, che permettono all’uomo di seguire la ragione invece che il sentimento del momento. Ai miei occhi, il tema del nostro tempo è certamente quello del senso, fondamentale, ma anche quello del carattere: cammina l’uomo quando sa bene dove andare e come camminare. Bisogna recuperare le antiche virtù della fortezza e della temperanza per non scoraggiarsi alla prima fatica, perché anche la fatica ha il suo senso, che bisogna percorrere. Bisogna recuperare l’esercizio della prudenza che opta per i mezzi migliori in vista del fine. Bisogna allenare la giustizia: perché solo volendo il bene è possibile poi sentirsi bene. E questo recupero spetta prima agli adulti: solo così sapranno infonderlo nei giovani. Solo diventando quegli uomini virtuosi, forti e temprati che sono chiamati ad essere insegneranno “per osmosi” ai figli ad esserlo.
Nel novecento il tema del carattere poteva essere dato per presupposto. Bastava un fiammifero per accendere un fuoco: c’erano molte energie per poche risorse. Ora il clima sembra all’opposto: i mezzi sono tantissimi, ma pochi s’impegnano ad usarli. Bisogna reimparare a farlo. Con un senso chiaro del perché valga la pena, certamente, ma anche con la pazienza e la perseveranza (parti integranti della fortezza) di apprendere, faticare, costruire, conquistare. Il saper fare illumina anche il sapere, e quindi l’essere.
La parabola di Samvise Gamgee, protagonista del Signore degli anelli, può aiutarci a cogliere questa prospettiva. “Adesso so” conclude uno dei dialoghi più belli del secondo film della serie. Dopo aver aderito ad una impresa inaspettata e ben al di là dei propri orizzonti, quasi sballottato dagli eventi, il piccolo hobbit – che di mestiere faceva il giardiniere ed ora combatte contro i cattivi del mondo – si rende improvvisamente conto del proprio valore (virtù) e prende posizione volontariamente di fronte alle circostanze: “C’è del buono in questo mondo padron Frodo. È giusto combattere per questo”. Da gregario, attraverso lo sviluppo delle virtù, diventa protagonista, riconoscendo ed abbracciando il senso degli eventi.
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