Perché la Guerra? di Sigmund Freud e Albert Einstein del 1932 è stato uno dei testi più citati all’inizio della guerra di occupazione russo-ucraina. Il piccolo libro riprendeva a distanza di 17anni altri due brevi contributi di Freud: Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte e Caducità, entrambi del 1915. Nessuno di essi aveva potuto abbreviare la Prima guerra mondiale né scongiurare la seconda e circa il potere taumaturgico della loro riattualizzazione in merito alla guerra russo-ucraina è legittimo nutrire più di un dubbio.
Salvo ricorrere alla psicoanalisi per un supplemento di comprensione, partendo quindi dal sospetto (fondato) che in fondo si tratti di un delirio, come ha di recente sostenuto Sergio Benvenuto – esperto di psicoanalisi e di questioni russo-ucraine- in una conferenza promossa dalla Società Amici del Pensiero – S. Freud, fondata da Giacomo B. Contri.
Delirio della Grande Russia, nel quale i russi sono però in buona compagnia con americani e cinesi: fare di nuovo grande l’America e la Cina. Quanto poi a elevare “la grandezza” a ideale dell’io, anche il mondo arabo partecipa a pieno diritto alla nuova competizione ideologica globale. Sarebbe il caso di accorgersi che l’idea di “grandezza” – “grandeur” applicata alla politica non è altro che un significante, un simbolo vuoto senza contenuto, salvo che il contenuto non arrivi – in soccorso – a darglielo una guerra, altrettanto vuota e senza contenuto. “Il significante si riempie di sangue” (ancora Sergio Benvenuto).
Perché la Guerra? È un pamphlet che Freud scisse su invito di Einstein e – non da ultimo – su richiesta del suo editore. Si tratta di un testo breve e asciutto che forse neppure sarebbe uscito dalla sua penna senza gli incalzanti inviti appena richiamati. Un po’ questo stupisce, perché nessuno come il maestro viennese aveva indagato il conflitto, ovvero la guerra dell’io con sé stesso, che poi è un corollario del conflitto dell’io col mondo esterno: con l’universo dei suoi altri e con la civiltà nella quale si trova a vivere.
Quando Freud vuol rendere l’idea dei conflitti dell’io ricorre alla geopolitica. Per la famosa topica es-io-super-io utilizza la metafora degli Stati. Es-io-super-io non sono semplicemente territori geograficamente confinanti, sono Stati in guerra, che invadono e sono invasi. Con linguaggio militare: Stati che occupano e sono occupati, che impongono una legge o la subiscono e non hanno più la possibilità di fare leggi in proprio. Quando Freud afferma che – nelle more della nevrosi – l’io non è padrone in casa propria dice che l’io è nel bel mezzo di una guerra, che quando non è drasticamente distruttiva, è sempre altamente diseconomica. La sicurezza – bene immateriale inestimabile – svanisce, i costi della vita si impennano, le risorse sono care e scarseggiano, o mancano del tutto.
Un’esperienza che Freud visse in prima persona con due figli al fronte, un nipote impegnato nella logistica, il cibo insufficiente, la gente – lui compreso – che perdeva peso e impallidiva a vista d’occhio. Combustibile non se ne trovava e il freddo spadroneggiava anche nei quartieri borghesi di Vienna dove la famiglia Freud aveva posto la propria residenza. La carta per scrivere razionata, per non parlare del tabacco. In entrambi i casi si trattava per Freud di privazioni enormi.
Eppure, non è dato leggere un suo solo lamento, così come ebbe a scrivere a una sua corrispondente in quel periodo: “non se ne aspetti”. Al contrario Freud conobbe nel periodo 1914-1918 una forte spinta creativa congedandopere fondamentali come Metapsicologia, che considerava al pari di un figlio, e l’insieme dei lavori che andranno a comporre il volume VIII della sua Opera. Alla distruzione – pulsione di morte – Freud seppe contrapporre una pulsione erotica. L’amore per il lavoro e l’amore per la costruzione di relazioni pronte a riprendere vigore appena il conflitto fosse terminato. Ma non era stato subito così. Inizialmente Freud fu scosso dalla guerra: quando la scure fu posta alla radice dell’Austria felix non mancò, anche per lui, un impeto guerresco, come “slancio patriottico” (C. Musatti) di difesa del proprio mondo.
Ben presto guarì, governando (altra parola politica) la pulsione di morte. La traccia che egli seguì la troviamo già presente nella sua interpretazione del Mosè di Michelangelo (1913), l’opera monumentale che egli visitò più volte a San Pietro in Vincoli a Roma. La statua è imponente. Mosè potente principe e guerriero capace di sconfiggere l’esercito del faraone e successivamente di sterminare gli adoratori di idoli, è rappresentato mentre trattiene la potente barba con la mano destra, trattenendo così l’impeto furioso ad alzarsi, che la statua evidenzia con la postura della gamba destra, sulla quale il gigante sembra pronto ad ergersi, spinto dall’altra gamba, in parte nascosta sotto le vesti. Mosè – questo il commento di Freud – non sarebbe assurto a emblema universale per l’umanità se non avesse maturato nei confronti della guerra “un’intolleranza costituzionale” (Perché la Guerra?). Mosè non avrebbe lasciato alcuna eredità se l’uomo furioso non avesse vinto – in primis in sé stesso – la pulsione di morte, governandola con la legge, che – come è noto – è di rapporto: non uccidere, non rubare, non razziare le donne dei tuoi vicini, non dire falsa testimonianza. Lavoro di civiltà, al servizio della pace, anche in tempo di guerra.
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