Oggi si parla spesso non solo di crisi della democrazia, ma anche di crisi del liberalismo, che è attaccato da destra e da sinistra. Ma che cosa significa liberalismo? Francis Fukuyama in Il liberalismo e i suoi oppositori (Utet 2022), precisa che “con liberalismo intendo la dottrina emersa nella seconda metà del XVII secolo, che sosteneva la necessità di limitare i poteri dei governi attraverso le leggi e le costituzioni, creando istituzioni a protezione dei diritti degli individui sottoposti alla loro giurisdizione. Non mi riferisco certo al liberalismo come viene inteso oggi negli Stati Uniti, cioè a un’etichetta per la politica di centrosinistra”.
Che cosa contraddistingue il liberalismo? Esso è individualista, in quanto asserisce il primato morale della persona rispetto alle pretese di qualsiasi collettività sociale; egualitario, nella misura in cui attribuisce a tutti gli uomini il medesimo status morale e nega che le differenze di valore morale tra gli esseri umani siano rilevanti per l’ordine giuridico e politico; universalista, poiché afferma l’unità morale della specie umana e attribuisce un’importanza secondaria alle differenze storiche tra società e forme culturali specifiche; e migliorista, poiché considera tutte le istituzioni sociali e le strutture politiche passibili di miglioramenti e correzioni.
È questa concezione di uomo e società che dà al liberalismo un’identità precisa, che trascende la sua vasta varietà interna e la sua complessità (varietà e complessità che Michael Walzer ha recentemente posto a tema in Che cosa significa essere liberale, Cortina 2023). Fukuyama osserva che la valorizzazione dell’individuo che è alla base del liberalismo è stata favorita da “regole che, introdotte dalla Chiesa cattolica, proibivano il divorzio, il concubinaggio, l’adozione e il matrimonio tra cugini, il che rendeva molto più difficile per reti familiari allargate conservare la proprietà di generazione in generazione. Ma è difficile sostenere che l’individualismo sia una caratteristica ‘bianca’ o europea. Una delle sfide più antiche delle società umane è il bisogno di andare al di là della parentela come fonte di organizzazione sociale, verso forme più impersonali d’interazione sociale”.
Sono molte, secondo Fukuyama, le critiche che si possono legittimamente muovere alle società liberali: indulgono al consumismo, non forniscono un forte senso di comunità o un obiettivo condiviso, sono troppo permissive e non rispettano valori religiosi radicati, sono troppo diversificate, non sono abbastanza diversificate; sono troppo lente nel perseguire un’autentica giustizia sociale. Così l’autonomia individuale è stata portata al limite estremo dai liberali di destra, la cui preoccupazione principale era la libertà economica.
Ma qualcosa di simile è stato fatto anche dai liberali di sinistra, che davano importanza a un altro tipo di autonomia, quella centrata sull’autorealizzazione individuale. In contesti come quello universitario o artistico abbiamo assistito a un massiccio ampliamento della concezione di ciò che danneggia gli altri. In alcuni casi il semplice proferire alcuni termini proscritti viene interpretato come equivalente a una violenza e la loro proibizione giustificata: “Il liberalismo moderno si fonda sulla premessa secondo cui le persone non concordano a proposito dei fini ultimi della vita o sulla concezione del bene. Il postmodernismo si è spinto oltre, dal relativismo morale a quello epistemico o cognitivo”.
Per quanto riguarda la critica del liberalismo da parte dei populisti di destra Fukuyama sottolinea che “le nazioni sono importanti non solo in quanto centri del potere legittimo e strumenti di controllo della violenza, sono anche un’eccezionale fonte di senso comunitario. A un certo livello, invece, l’universalismo liberale è in totale contrasto con la natura della socialità umana: abbiamo legami di affetto più forti con chi ci è più vicino, come amici e familiari”. D’altra parte, la critica proveniente da sinistra si è evoluta dall’accusa, in sé corretta, secondo la quale le società liberali non sono all’altezza dei propri ideali, cioè di un trattamento paritario di tutti i gruppi. Questa critica si è ampliata nel tempo fino ad attaccare i principi del liberalismo in sé come la sua collocazione dei diritti negli individui anziché nei gruppi e così via.
In conclusione Fukuyama sottolinea che “se l’autonomia è […] un valore di fondo per il liberale, non rappresenta però l’unico bene umano che automaticamente sovrasta tutte le altre visioni di una vita felice […] il terreno dell’autonomia si è ampliato nel tempo, passando dalla libertà di obbedire alle regole all’interno di una cornice morale già esistente a quella di creare da sé le proprie regole. Ma il rispetto dell’autonomia puntava a gestire e moderare la concorrenza tra convinzioni radicate e non a sostituirsi a tali convinzioni in toto”.
In sintesi, se l’autonomia personale “è la fonte della realizzazione individuale, questo non significa che una libertà illimitata e la costante distruzione di tutti i vincoli rendano la persona più realizzata. Talvolta la realizzazione viene dall’accettazione del limite. Recuperare un senso comunitario e di moderazione individuale è la chiave per far rivivere, anzi sopravvivere, il liberalismo”.
Esso, quindi, ha sempre bisogno di quell’educazione comunitaria alle virtù che, facendo emergere l’individuo nella sua autonomia, gli ha permesso storicamente di affermarsi. Vale anche nel suo caso, secondo Fukuyama, quello che Winston Churchill ebbe a dire della democrazia, ovvero che il liberalismo è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre.
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