Ricorre quest’anno il 90esimo anniversario della nascita dello scrittore Fulvio Tomizza (Giurizzani, in Istria, 26 gennaio 1935 – Trieste, 21 maggio 1999), uno dei maggiori scrittori non soltanto italiani, ma europei del secolo scorso, sia per le tematiche affrontate nei suoi libri, sia per il palmares di premi italiani ed europei ricevuti. Tomizza è uno dei grandi scrittori dimenticati del nostro Paese, sullo stesso piano, per intenderci, di Giovanni Arpino, Giuseppe Biamonti, Vitaliano Brancati, Carlo Cassola, Piero Chiara, Mario Luzi… Una dimenticanza che non toccherà, ne siamo certi, a Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, di cui, sempre quest’anno, ricorrono anniversari tondi della nascita, o della scomparsa. Perché questo? Perché la cultura dominante, la quale, passo dopo passo, ha realizzato nella mentalità comune la visione gramsciana della conquista del potere, occupando appunto la cultura, l’istruzione, l’informazione, ma anche la giustizia, ha ucciso coloro che non si sono allineati a tale visione (e non soltanto nella letteratura, nel cinema, nel teatro, nella musica, per restare all’arte), mantenendola a tutt’oggi.
La critica ufficiale nazionale, che inizialmente aveva esaltato Tomizza, non riuscendo a portarlo dalla propria parte, lo ha abbandonato. Anche se al nostro, a onor del vero, interessava ben poco, proprio perché non era disposto a barattare libertà e verità per il successo, che peraltro ha in qualche modo ottenuto, soprattutto fuori dall’Italia, nel resto d’Europa e in altri continenti. In particolare dove la comunità italiana dell’Istria, costretta a scegliere tra Jugoslavia e Italia, aveva preferito altri Paesi, per non essere sottomessa o appena tollerata, ma libera di continuare a vivere e a mantenere, pur nella lontananza dalla terra d’origine e pur integrandosi con le nazioni che l’avevano accolta, la propria identità, cultura e storia.
Tomizza è stato costretto ad abbandonare la nativa Istria a 17 anni, insieme alla sua famiglia, profuga a Trieste a seguito del Memorandum di Londra del 1954. Tornato qualche anno dopo in Jugoslavia, a Belgrado, perché lì voleva completare gli studi, si è trasferito definitivamente in Italia, lavorando come redattore presso la sede triestina della Rai ed iniziando parallelamente l’attività di scrittore. Come tale si è fatto notare, affermandosi nel 1960, col romanzo Materada, il primo della cosiddetta “trilogia istriana” (gli altri due libri sono La ragazza di Petrovia (1963) e Il bosco di acacie, edito nel 1966); trilogia ripubblicata nel ’67, poi nell’89 nel libro Poi venne Cernobyl, e nel ’93 in un tascabile insieme ai racconti Via da Materada e L’Ente, precedentemente pubblicati nell’85 in Ieri, un secolo fa. Tomizza ha pubblicato complessivamente ventisette libri (tra cui alcuni per ragazzi e uno postumo, edito nel 2000: La casa col mandorlo), tradotti in dieci lingue e diffusi in molti Paesi europei e non.
Al di là dell’anniversario, riteniamo Fulvio Tomizza un autore più che mai attuale, dunque da riscoprire. In primo luogo, per il suo essere stato uno scrittore europeo, di quell’Europa desiderata e sognata fin dal secondo dopoguerra del secolo scorso dai padri della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (CECA) e della Comunità Economica Europea (CEE): il francese Robert Schuman, il tedesco Konrad Adenauer, l’italiano Alcide de Gasperi e il belga Paul-Henri Spaack.
Tomizza, infatti, come ricordava, ad esempio, Luca Pezzi al convegno Fulvio Tomizza, tra vecchi e giovani studiosi, svoltosi a Trieste il 4 marzo 2009 nel decennale della sua scomparsa, “porta con sé la tradizione, ovvero le esperienze e le differenze dei suoi avi – sloveni, croati, friulani, ecc. – vuoi linguistiche, vuoi sociali, vuoi culturali, coagulate nel corso dei secoli dal suo ambiente, quello istriano – ecco, la terra –, costituito da una campagna aspra e difficile da lavorare, ma anche dalla fede cristiana, vissuta come una religiosità naturale permeata di tradizioni pagane contadine e dalla condivisione solidale dei bisogni e del lavoro. Quel luogo di memoria, di terra e di uomini “misti”, “meticci”, in cui Tomizza è vissuto e da cui è stato sradicato, ha lasciato in lui tracce ineliminabili che ne hanno fatto una voce unica non solo di quella terra, ma della letteratura tout court, non tanto “triestina”, definizione che è decisamente stretta per un narratore che ha invece superato le frontiere e si è posto – e continua a porsi – quale autore di una in parte ancora in fieri, ma autentica, Europa della riconciliazione.
Dunque, non soltanto uno scrittore di frontiera, definizione che gli attribuì Paolo Milano, critico de l’Espresso, nel 1960. “Una classificazione, che a volte mi va stretta, altre volte mi sta giusta”, ci disse la prima volta che lo incontrammo nel ’95, nel solco della nuova letteratura emersa in Europa nel secondo dopoguerra. Una letteratura di frontiera rappresentata fin da allora, ad esempio, dagli scrittori della Berlino bifronte, come Günter Grass: polacco di nascita, con retroterra slavo, che scriveva in tedesco; una letteratura di frontiera che si stava diffondendo nel vecchio continente, a ovest, come ad est. Tomizza, di padre italiano e madre slava, con avi che avevano navigato e attraversato l’Adriatico, approdando sulla costa dalmata per stabilirsi in una Istria un po’ più interna, ha rappresentato l’esempio più significativo della letteratura di frontiera del nostro Paese, come emerge dalla citata “trilogia”, un elemento che gli è rimasto appiccicato addosso, anche per colpa di tanti suoi colleghi scrittori di frontiera, pur se venivano da zone in cui la frontiera non si era neppure affacciata. Quando si parla di frontiera, per Tomizza si deve pensare a qualcosa di reale, a un mondo determinato proprio da un confine, col quale occorreva e occorre tutt’ora fare i conti, perché si tratta proprio di uno sbarramento.
(1 – continua)
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