“Il contorno del corpo ormai perduto,/ un filo che si è sciolto/ come i giochi di sabbia di un bambino/ o se a Dio mancasse il fiato/ per soffiare, ancora,/ sulla polvere che sei”: è questo il corpo di un padre sorpreso nei suoi passi febbricitanti e impauriti dentro il corridoio di un ospedale, di un padre la cui imminente fine e definitiva distanza viene raccontata nell’ultimo libro di Roberto Gabellini, Era questo l’amore? (Moretti e Vitali, 2023) con una preziosa postfazione di Giancarlo Pontiggia. Perché si muore? Quale colpa dobbiamo espiare? Quale patto deve essere onorato con il nostro ridare indietro quella vita che abbiamo ricevuto? Il libro di Gabellini è un lento meditare sulla figura del padre, ma è anche una profondissima riflessione sul senso della vita e della morte.
Il libro si sviluppa in sei stazioni che portano questi titoli: Inno d’afflizione; Elevazione; Lutto d’impotenza; Implorazione, Vigilia d’attesa; Incanto. Nel viaggio attraverso questi diversi passaggi in cui avviene la consapevolezza piena del lutto, si è come immessi in una sorta di mise en scène: ai versi si accompagnano dei passi in prosa che costituiscono una costante dell’intero libro; talvolta suggerendo quale dovrà essere la postura del lettore rispetto a ciò che viene, talvolta quasi fossero interrogazioni o esortazioni di un ipotetico coro tragico che suggerisce quasi una struttura teatrale del libro, tanto che lo stesso Pontiggia parla di una natura ibrida dell’opera – a metà tra pensiero lirico e ipotesi drammaturgica. E di dramma in effetti si tratta. Di un dramma che, nell’affrontare quel tema dell’addio così totalmente personale, riesce però a diventare rappresentazione esemplare, dal valore quasi liturgico.
E lo fa accogliendo l’istante estremo dello svanire del padre, dentro la rivendicazione della possibilità di vivere nell’invocazione di un senso incontrabile per chi è partito e per chi rimane. Davanti al padre che grida al cielo, davanti al padre ormai in preda al dolore esatto, senza scampo, il poeta – e il figlio, e ognuno di noi – intravede che “una luce sottile cola, colora/ preziosa il petto ferito; ecco,/ tu, figlio,/ Isacco ormai vecchio,/ offerto di nuovo alla mano di Dio,/ altare prezioso e insieme offerta,/ cortese con la morte”. Il poeta, proprio nel momento dell’assenza tragica, riconosce invece la presenza di un Dio: è lì da qualche parte, dentro il lutto il cui silenzio non può essere la parola definitiva.
L’ultima parola sarà l’amore, quello di chi “si sente alla prova, obbligato a essere forte, a non lasciarsi cadere o urlare come si faccia a sperare. Che il loro amore, e fino alla fine, ne confonda le lacrime e il dolore; riparo sicuro, ancora, e per noi commercio di salvezza”. L’eredità del padre si riverbera nel figlio ormai vecchio come una libertà capace di assumersi responsabilmente il compito di dare un nome nuovo alle cose, il compito di abbracciarle tutte come la condizione unica per il riscatto intero di ciò che è stato e di ciò che sarà.
E non è un caso qui il richiamo alle pagine dell’antico testamento in cui si consuma il terrore di Isacco e la follia amorosa di Abramo (peraltro indagato con esiti ugualmente alti in un’altra recente opera poetica, Parola di Isacco di Alessandro Pertosa, che ha più di un punto di contatto con questi versi di Gabellini e su cui occorrerà tornare): in quel racconto si celebra la necessità da parte del genitore di acconsentire alla perdita del figlio, al suo sacrificio, per permettergli di slegarsi dai vincoli familiari e trovare il suo posto nel mondo. E anche nei versi di Gabellini, in particolare nell’ultimo movimento di questa lunga composizione dal titolo Incanto, in cui il figlio è un io nuovo, un “io, uomo, il primo di nuovo; le scarpe di vernice ancora strette”, accade la stessa conquista: il poeta-figlio è pronto a camminare dentro “il giardino preferito dal vento,/ rifugio sempre aperto, abbraccio / nel quale il tempo ricomincia, / legno tenero di tenerezza stanca”, e in cui il figlio – e ognuno di noi – “è eroe disarmato che avanza, barcolla,/ non ha paura di cadere”. Il mondo diventa così un luogo in cui chi è cresciuto accettando il suo essere ormai solo, abbandonato dal padre, può ricominciare il suo cammino dentro la fragilità, ma senza paure.
Quello di Gabellini in Era questo l’amore è dunque un viaggio epico e necessario verso la conquista di una responsabilità personale nella costruzione di un senso nuovo delle cose e del mondo dopo l’attraversamento del deserto. Così come necessaria e urgente appare la sua poesia che – anche se sintatticamente talvolta impervia – è capace di disegnare un’opera unitaria e compatta, originale e intensa che si inserisce a pieno titolo in quell’avventura poetica che si fa e si pensa come luogo privilegiato della conoscenza, come luogo di un attraversamento della condizione umana tutto vissuto nell’attimo in cui la realtà accade chiamandoci in causa. Di una poesia che riproduce l’antinomicità del reale, che è tensione e dramma. Ma che poi è anche composizione e unità che afferma e abbraccia – anche dentro il dolore estremo – la realtà presente dentro cui facciamo l’esperienza del limite e del desiderio del suo superamento. Limite e desiderio che sono il paese vero che la vita ci riserva di abitare.
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