Quando García Lorca intendeva la lirica civile come atto d’amore e si rifiutava di schermare le sue composizioni dalle intemperie dei giorni, ha forse avuto avvio uno dei più grandi malintesi della critica: utilizzare la politica per comprendere la letteratura ha superato il dovere di tenere giunto registro estetico e senso sociale. Abbiamo cioè adoperato i marcatori politici (e talvolta persino partitici) per premiare la fortuna di un autore; dovevamo, piuttosto, comprendere in che termini il linguaggio potesse servire a trasformare in senso liberante e progressivo i tratti ingiusti delle istituzioni economiche e governative.



Sull’onda di questo celebre malinteso una serie di autori tipicamente espressivi del Novecento, e per il vero classici universali per qualità e rinomanza della loro opera, sono finiti fuori dal canone della letteratura militante, quando invece la loro voce avrebbe ben altra attenzione meritato. In tal senso, Gaston Leroux (1868-1927), non avendo potuto vivere la fine dei totalitarismi e non avendone avversato anche solo anagraficamente l’origine, è spesso finito nel dimenticatoio come scrittore fantastico e fantasioso, incrostazione ottocentesca trapiantata per errore nel Secolo Breve. Mai errore più grave. Leroux, anzi, non solo ha preconizzato tanta parte del Novecento pur scrivendo a partire da ambientazioni che sembravano tramontate, retrobottega della storia, del pensiero e del costume, ma addirittura elementi dei suoi romanzi si proiettano alla spietata concretezza dei nostri più attuali incubi peggiori.



La sua biografia, certo, è ancora indicatore di una particolare categoria sociale del tardo Ottocento francese: dissipatore di una famiglia agiata. Stazza presto fattasi importante (superando allegramente il quintale), una dedita quanto incosciente passione per il gioco, coltivata con la risata sorniona di chi fa l’ennesima marachella e non con la postura angosciata di un tormentato personaggio dostoevskiano: altro peccato imperdonabile. La metamorfosi nel sorriso non si perdona nemmeno ai santi: è l’afflizione nella stasi che il moralismo – e non la morale – perdona persino ai criminali.



Avvocato mancato, come tanti figli degeneri dell’agiatezza di Stato: quando l’arte forense assicurava non solo importante lignaggio privatistico, ma spesso pure ruoli amministrativi, prebende, vantaggi. Eppure giurista era, e raffinatissimo: inizia con la cronaca giudiziaria, quando ancora la cronaca giudiziaria come stile giornalistico precipuo perlopiù non esisteva (precursore insigne anche in questo). E tutto quello che sa di codici, procedure, processi, uffici e persino criminologia – all’epoca sapere lontanissimo dal darsi lo statuto sistemico di scienza autonoma – lo mette anche su carta nei suoi scritti apparentemente solo narrativi. Inventa una batteria di personaggi che per certi versi ricorda il “discorso sul metodo” di Picasso: non la pretesa palingenetica e razionalistica cartesiana, ma la capacità di assorbire così perfettamente un clima del passato prossimo da rielaborarlo nel presente per farlo sopravvivere al futuro.

Il mistero della camera gialla è del 1907; è uno dei più celebri libri ad enigma di tutta la letteratura mondiale: emuli devoti arrivano fino al Giappone. Il classico mistero della camera chiusa, qui declinato con un pragmatismo logico-analitico che certifica un livello culturale non derivante dalla sola (pur grande) inventiva. Quel tipo di letteratura già esisteva, Leroux la eleva. Il protagonista è un giornalista-detective dilettante, non più dalla barba folta e dalla pancia importante come il suo ideatore, ma dalla caratteristica nuca piatta stempiata: Joseph Rouletabille (si sa: non tutti gli eroi giovani sono per ciò solo pure belli).

E l’altra grande invenzione della sua penna è l’evaso sbandato, già criminale eppoi paladino degli ultimi, lezione in continuità col magistero de I Miserabili di Hugo, Chéri-Bibi: anarchico ribelle, smargiasso incontenibile, mattatore dell’equivoco; in certe scene, la cultura di Leroux rimanda persino ai Plauto e Terenzio che aveva incontrato al lato della tradizione romanistica ufficiale, che è perlopiù quella forense-oratoria.

A Leroux si deve una straordinaria opera di commiato alla società teatrale ottocentesca, tabernacolo di iniziati che sarebbe rifluito nel “panem et circenses” dello Stato totalitario novecentesco. Il fantasma dell’Opera, così magico e così tante volte e da tanti visto sullo schermo e sul palco, è in realtà il grande romanzo che anticipa la trasformazione della fama e della diceria nella società delle comunicazioni di massa. Nessuno è veramente innocente eppure vedendo dietro le quinte la storia di quei personaggi nessuno ci appare davvero così colpevole come viene descritto (altra maestria di Leroux): Erik non è più il mostro rapitore, è un piccolo uomo bramoso d’amore e nato deforme; il Persiano non è un obbrobrioso debosciato, ma semplicemente l’uomo della manovalanza teatrale che scrutando il foyer scopre il mondo; Christine e Raoul più che irrisolti innamorati tardo-romantici sono due personaggi perfettamente in vita nella loro epoca (l’eterea attrice e il nobile idealista in decadimento). Se intuire la crisi delle etichette sociali significa già prospettare le nuove che verranno, pochi più di Leroux lo hanno fatto così bene.

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