“La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia!”. Così aveva scritto il poeta libanese Khalil Gibran e così Gaja Pellegrini-Bettoli, che forse non a caso cita questa frase nel suo libro Generazione senza padri. Crescere in guerra in Medio Oriente (Castelvecchi 2019), ha affrontato la parte della sua vita trascorsa in questa contraddittoria “porzione di mondo”.
Lo sguardo dell’autrice, dalle sue prime esperienze da freelance sulle tracce del rapimento della cooperante Rossella Urru nel 2012 fino alla prima linea del fronte di Mosul nel 2016, non è quello di chi cerca di “sopravvivere” ai rischi, guardando la realtà in modo distaccato, per realizzare il miglior reportage nel minor tempo possibile. È lo sguardo di chi sa bene che per descrivere la vita degli altri è necessario mettere a loro disposizione la propria. Gaja Pellegrini-Bettoli lo fa quasi “danzando” con delicatezza nelle tante storie delle persone che incontra nel suo “viaggio” ma anche con la grinta e la perseveranza di chi vuole capire davvero cosa si celi dietro ai luoghi comuni, per descrivere il Medio Oriente nelle sue molteplici sfumature.
È inevitabile che quando si decide di raccontare la vita degli altri mettendo a disposizione la propria, questa diventi parte del racconto. Per questo il testo va ben oltre il resoconto degli eventi accaduti nei cinque anni in cui l’autrice ha vissuto in Medio Oriente (dal 2013 al 2018), facendo base a Beirut ma coprendo eventi in molte zone dell’area, come l’offensiva contro l’Isis a Mosul, e vivendo un anno a Gaza. L’analisi presenta al lettore rari spaccati di quotidianità, uniti a puntuali riflessioni storiche che si mescolano con il racconto delle difficoltà di una freelance e fanno di questo libro uno strumento di agevole lettura capace, però, di spiegare dinamiche estremamente complesse.
Sono decine gli incontri e le storie che si intrecciano nel testo. La situazione in Libano è raccontata attraverso l’intervista al leader druso Walid Jumblatt e allo sceicco Naim Qassim, vicesegretario di Hezbollah, ma ha anche il volto delle sorelle Maya e Nancy Yamout che ogni settimana, in un carcere di Beirut, parlavano con alcuni jihadisti nel tentativo di combattere la radicalizzazione, e quello di Aboudy, un giovane rifugiato arrivato da Aleppo, un venditore di rose come tanti, cresciuto troppo in fretta perché la guerra in Siria ha “derubato oltre otto milioni e mezzo di bambini della loro infanzia”.
L’offensiva contro Isis a Mosul è vista dalla prima linea del fronte che, fa notare con un po’ di amarezza l’autrice, “si era trasformato in una sorta di drive-in, dove ognuno prendeva il posto che preferiva per godersi lo spettacolo”, mentre i peshmerga curdi combattevano per guadagnare territorio. Anche in questo caso lo sguardo di Gaja Pellegrini-Bettoli va oltre gli eventi e si sofferma sulle “vite” dei civili allo stremo, sugli instancabili medici al fronte, senza risparmiare critiche all’aggressività di alcuni “colleghi”, pronti a calpestare (letteralmente) il dolore del padre per la morte del figlio per avere lo scatto migliore. Sarà proprio questo episodio a spingerla a dedicare un intenso capitolo all’etica del giornalismo al fronte.
Con lo stesso sguardo critico e al contempo autoironico racconta la sua “vita quotidiana a Gaza”, dove ha vissuto tra gli obblighi della “vita d’ufficio” (come addetta all’ufficio stampa dell’Unwra) e il costante bisogno di “uscire dal compound” per interagire e conoscere le persone del luogo. Un luogo, tiene a precisare, in cui “i problemi dei civili […] hanno varie cause sedimentatesi in settant’anni di conflitti, non solo con lo Stato di Israele ma anche con la propria rappresentanza politica”.
C’è poi anche il senso di frustrazione nel dover scrivere della Siria (senza poter andare in Siria) che apre uno dei capitoli più dolorosi del libro, ma più in generale della storia recente: le vicende di 400mila persone sotto assedio nel Ghouta orientale (regione a est di Damasco). L’impotenza nell’essere a soli 85 chilometri dalla capitale ma di non poter accedere ai luoghi del massacro è la cifra della drammaticità della situazione. Così, mentre cerca di lavorare al meglio per documentare a distanza una delle pagine più terribili del conflitto siriano, l’autrice non può che notare come la Siria è da tempo “diventata il teatro di scontri per eserciti, milizie e interessi geopolitici di almeno cinque Paesi e gruppi etnici come curdi, Russia, Iran, Libano, Turchia, Arabia Saudita e Stati Uniti. Senza contare i gruppi terroristici e i Paesi che li finanziano”.
Il Medio Oriente è tutto questo e molto di più, è “un apprendimento continuo e lento” dice Gaja Pellegrini-Bettoli che lo ha vissuto in prima persona e ha scelto di condividere la sua storia con i lettori per raccontare i mille volti di chi è destinato a crescere in guerra, con l’amara consapevolezza che le conseguenze di ogni conflitto non termineranno con degli accordi di pace (se mai ci saranno) ma continueranno a riflettersi oltre i porosi confini di questi Stati e nelle future “generazioni senza padri”.