Per gentile concessione della rivista “Infinitimondi”, ripubblichiamo l’articolo dell’autore dedicato a Gerardo Chiaromonte.
A Gerardo Chiaromonte piaceva fare domande ed ascoltare, soprattutto quando era con noi giovani. Ogni occasione era buona, una pausa durante una riunione, una passeggiata verso il cinema o la piazza dove tenere una manifestazione, un pasto più o meno frugale. Il mio primo ricordo è proprio legato ad un pranzo intorno a una tavolata lunga e stretta, in una sala interna della pizzeria Umberto in via Alabardieri. Avevamo appena concluso una bella manifestazione delle Leghe dei giovani disoccupati. Era la primavera del 1978 e intorno a quel tavolo c’era un folto gruppo di giovani della Fgci napoletana, la star del giorno era Maddalena Tulanti, la ragazza che aveva creato dal nulla quel movimento, che gli era seduta accanto, adrenalinica e contenta, con il suo sorriso largo e la parlata veloce.
Chiaromonte riuscì a tenerci inchiodati lì più di un’ora per un pranzo a base di pizze e antipasti. Discuteva con noi liberamente, su cosa avremmo dovuto fare del “movimento” (il tema che ci assillava era se entrare nella CGIL e perdere così la caratteristica di movimento autonomo), sulla legge 285 appena approvata e se sarebbe mai entrata in funzione, sul governo di unità nazionale, che lo vedeva protagonista e tra i più accesi e convinti sostenitori. Per noi era una occasione di crescita, un’opportunità che già all’epoca consideravamo un privilegio, un dono che solo la politica ci poteva dare.
L’ultima volta che ho avuto modo di parlare con lui a lungo è stato nel 1993, qualche giorno prima della sua morte. Aveva accettato, unico dirigente del partito, di partecipare ad una manifestazione “difficile”. All’epoca ricoprivo l’incarico di segretario regionale del Pds. Avevano appena arrestato il segretario della federazione e un gruppo di imprenditori per quella che era una delle prime inchieste della Tangentopoli napoletana, legata agli appalti per la nettezza urbana. Egli aveva da poco lasciato la presidenza della Commissione Antimafia, aveva mille motivi per declinare l’invito, ma non si fece pregare. Mi disse che era di passaggio perché, per la settimana di Pasqua, pensava di ritirarsi qualche giorno a Vico, continuare lì le sue cure. Ma sarebbe venuto, disse: “per dare una mano”.
Timorosi della riuscita della manifestazione e considerato il clima pessimo che si respirava in quei giorni nel partito napoletano, affittammo l’Adriano, un vecchio cinema-teatro con 400 scomode sedie in legno, in via Monteoliveto, a pochi passi dalla facoltà di Architettura. Arrivò con una mezz’ora di anticipo in federazione, e mi sottopose ad una serie assai fitta di domande. Sapeva già tutto, era evidente. Ma voleva ugualmente che gli rispiegassi cosa era successo, come era potuto accadere. Mi anticipò che non avrebbe parlato a lungo, “in queste occasioni – mi disse – bisogna essere chiari e brevi”. Il cinema era al contrario delle nostre previsioni pieno zeppo, ma silenzioso, c’era aria di sconfitta. Erano venuti per lui. Percepii nettamente la sensazione che non solo Chiaromonte ci aveva “aiutato” ad organizzare quella riunione, ma era la ragione stessa della sua riuscita.
Se riprendiamo il suo libro Col senno di poi. Autocritica e no di un uomo politico (1990) e rileggiamo il capitolo sul suo ritorno a Napoli nel 1987, possiamo comprendere meglio il rapporto che Chiaromonte aveva con la sua città, in particolare dopo la conclusione dell’esperienza delle giunte Valenzi. Esperienza che egli ha sempre apertamente difeso, e non solo per il suo legame di amicizia personale con Maurizio Valenzi. Era scettico verso tutto quello che in qualche modo rappresentava un approccio critico verso quella esperienza di governo. Ed era stato particolarmente critico con noi giovani della nuova leva che, con Ranieri segretario, cercavamo di organizzare un seminario di discussione su quegli otto anni. Era ormai diventato un tabù e in effetti quella discussione non ebbe mai luogo. Nonostante ciò, su una cosa eravamo tutti d’accordo: la sinistra napoletana non si era più ripresa, preda di un inesorabile declino politico ed elettorale, e il 41% del 1976 era ormai un lontano ricordo. Pochi mesi prima, nel novembre del 1992 avevamo subito un’altra sonora batosta alle elezioni comunali, quando il Pds aveva raccolto un misero 12,1% nonostante l’impegno di Aldo Masullo come capolista.
Il suo discorso all’Adriano, il suo ultimo discorso, seguì il filo della sua idea di Napoli. Una città sempre esposta alle crisi di passaggio, sempre in bilico tra grandi potenzialità e contraddizioni irrisolvibili, tra una inaspettata modernità e la peggiore specie di conservatorismo. Era per lui “sbagliato e pericoloso ogni tentativo di minimizzazione”. L’invito esplicito fu quello di non nascondersi i problemi, di far finta di niente e attendere. Al contrario era necessario avere il coraggio di affrontarli e superarli, di cogliere le ragioni e i pericoli che una forza democratica come la nostra deve affrontare per operare in una città come Napoli. La nostra diversità non era un dato congenito ma una conquista, una scelta, che doveva valere in ogni occasione. E quando si perde può essere ricostruita solo con sincerità e lealtà verso ciò che rappresentiamo.
Finita la manifestazione ci rincuorò. Ci disse che eravamo stati coraggiosi a indirla e mi chiese di tenerlo informato. Non feci a tempo perché dopo qualche giorno se ne andò. Appena avvisato, raggiunsi Vico, la cittadina che condivideva con i vecchi amici di sempre. Dopo poco arrivò Aldo Cennamo, poi ci raggiunse Pasquale Nonno, allora direttore de Il Mattino. Fu lui a chiedermi di fare uno sforzo di memoria e provare a riscrivere l’intervento all’Adriano per il suo giornale. Non si capacitava come era stato possibile che la redazione avesse bucato un’iniziativa di tale importanza. Non fu difficile a distanza di qualche ora ricordare le sue parole. Il giorno seguente il Mattino dedicò a Chiaromonte quasi l’intera prima pagina con l’editoriale del direttore e la trascrizione del suo discorso. Per me è rimasto tra i ricordi più cari aver fatto quella trascrizione e di aver contribuito a non smarrire così quello che è il suo testamento politico.
Chiaromonte non si tirava indietro nei momenti di difficoltà, e nello stesso tempo non era mai indulgente: non sprecava parole di conforto, andava al nocciolo delle questioni, amava essere essenziale e non nascondeva il disagio per chi nascondeva il vuoto sotto una montagna di chiacchiere. Per questo mi appariva come un uomo di azione, che metteva il suo prestigio e la sua cultura a disposizione della macchina organizzativa che conosceva bene e che sapeva far funzionare.
Ricordo quando nell’inverno del 1978 – nel pieno dell’esperienza di unità nazionale – dovette venire a Napoli per affrontare docenti e studenti universitari inferociti per i decreti Pedini. Pochi giorni prima il responsabile scuola e università del partito, Achille Occhetto, non era riuscito a completare il suo intervento. La sala Mario Alicata era gremita in ogni piccolo spazio, e lui affrontò la platea difendendo con coraggio una politica ormai agli sgoccioli, ma che per lui conservava ancora valore in nome delle ragioni profonde degli interessi dei lavoratori, del Mezzogiorno, dei giovani. Ricordo ancora il suo appello estremo all’unità “tra giovani e anziani, tra nord e sud, tra classe operaia e certi produttivi, tra la cultura e il mondo della scuola”. Chiaromonte voleva unire il paese ad ogni costo.
Ma era successo anche nel 1986, quando la federazione napoletana del Pci fu scossa da due scandali, quello delle assunzioni clientelari in Provincia e quello ancora più grave delle cooperative degli ex detenuti. Ancora una volta fu lui a partecipare al comitato federale che durò un giorno e una notte, nella sede del gruppo regionale a Palazzo Reale. Anche lì usò parole chiare, senza infingimenti, senza girarci intorno. Ciò che era successo era da addebitare ai gravi errori frutto di politiche sbagliate verso i disoccupati organizzati, a quei rapporti insani con le liste di lotta che intrattenevano anche settori del partito. Temi che ricorderà poi nel suo libro, precisando con amarezza che in quell’occasione non fu ascoltato e prevalse una linea attendista e consolatoria.
Rileggendo oggi le sue parole, a oltre trent’anni di distanza, mi colpisce l’energia che Chiaromonte metteva nella difesa delle scelte fondamentali del suo lungo percorso politico. Altro che autocritica, altro che “con il senno di poi!”. Sembra dire: sono tutti bravi a dire “dopo” cosa si sarebbe dovuto fare. Ai miei occhi appare ancor di più un dirigente moralmente superiore. Pur di fronte a un percorso storico segnato da sconfitte e davanti al precipitare di eventi che hanno modificato radicalmente i punti di riferimento di una intera stagione politica, come fu il crollo dell’Unione Sovietica, Chiaromonte cerca disperatamente di non smarrire le ragioni di fondo delle scelte politiche da lui compiute, di comportamenti che hanno sempre cercato, con coerenza, di valorizzare l’impegno politico e la partecipazione di milioni di uomini e donne. Da questo punto di vista rimane un uomo del suo tempo e uno spirito conservatore. Quasi sempre il suo appello è a contestualizzare, ripensare al quadro degli elementi che storicamente condizionano una decisione, al bicchiere sempre mezzo pieno dei piccoli passi in avanti, al contributo dato al miglioramento delle condizioni di vita, alla visione positiva di una società che in ogni caso è cresciuta anche grazie a quelle scelte e che ora distribuisce, per quando ancora non equamente, ricchezza e benessere, nuove garanzie sociali, protezione per i meno fortunati.
Come mi capita ogni volta che partecipo alla rievocazione di fatti a cui ho partecipato direttamente, di cui insomma sono stato testimone e qualche volta protagonista, cerco di misurare con molta cura il ricorso ai miei ricordi. Io stesso ne ho timore, non riesco a considerarli come “la verità”. Sono al massimo la mia parte di conoscenza di quello che è accaduto, quella che è rimasta nella mia mente, quella che credo di conoscere e che mi appartiene. Ma non è la verità. Al massimo è una testimonianza, sincera, ma sempre il frutto di quello che ricordiamo, di quello che vogliamo ricordare.
I ricordi sono esattamente come i file di un computer. Possiamo recuperarli, aprirli, leggerli. Ma possiamo anche modificarli, danneggiarli, cancellarli. È stato dimostrato da studiosi di neuroscienza che noi facciamo queste operazioni molte volte nella nostra vita, più o meno consapevolmente. Più viviamo più apriamo i nostri file, più li danneggiamo. Insomma, ricordiamo quello che ci piace ricordare. Il ricordo autobiografico è sempre il risultato di un processo, non sempre consapevole, di elaborazione soggettivo. Per cui i nostri ricordi – diciamocelo francamente – non sono affidabili. Per questo esistono gli storici, i ricercatori, gli archivisti, che hanno studiato e posseggono gli strumenti per scoprire la verità. Indagano le fonti, ne valutano la coerenza, verificano le stesse pagine di storia scritte da altri storici compiacenti.
L’uso dei ricordi sta segnando in modo inconfondibile la nostra epoca. Siamo tutti più anziani, possediamo o crediamo di possedere una gran mole di ricordi da condividere, ci riferiamo con commozione agli stessi episodi. Tutto ciò alimenta una diffusa “nostalgia del passato”, un sottile ma inconfondibile desiderio di guardare a ritroso, di pensare che quello che abbiamo vissuto era sicuramente meglio del presente. C’è chi riconosce in questo un sentimento positivo, c’è chi lo usa per operazioni di marketing. È invece una malattia – la “malattia del ricordo” come indica la parola stessa – che ci impedisce di guardare al futuro, che ci sottrae tempo e assorbe energie, che non aiuta quel giusto bisogno di usare il passato per guardare al futuro, condiziona il rapporto tra le generazioni. Non ci aiuta a dimenticare e a lasciar andare le cose che non servono più.
Per questo ancora di più oggi considero Chiaromonte una figura che può aiutarci nella nostra contemporaneità. Il suo gusto per la concretezza, la sua praticità, il suo pensiero rivolto alle condizioni di partenza del Mezzogiorno, il suo approccio unitario, dovrebbero restare di esempio. Egli era una figura chiave della sinistra del Novecento e difendeva il suo tempo: si chiedeva apertamente con coraggio se “è veramente solo un cumulo di macerie quello che ci lasciamo alle nostre spalle”. La sua onestà intellettuale lo colloca al di sopra delle attese e di quelle che sono oggi le nostre domande, a cui ovviamente non può rispondere, ma rimane un esempio l’uomo che ha difeso tutte le scelte fondamentali della sua vita nella convinzione di stare dalla “parte giusta” della storia.
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