“L’artista proteiforme: Picasso. Davvero, non c’è probabilmente nessun nome che caratterizzi Picasso meglio di questo, e nessun artista che lo possa portare con maggior diritto di lui. L’uomo ‘proteiforme’, capace di trasformarsi in ogni cosa, ‘ora Dio, ora granello di sabbia’, è però, col suo abbandono della via di mezzo, con la sua mancanza di limiti e di misura, la moderna immagine deformata dell’uomo universale. In tutte queste qualità, altrettanto brillanti quanto sciagurate, Picasso è una figura esemplare del nostro tempo e dell’arte moderna”.
Descriveva così lo storico dell’arte ungherese Hans Sedlmayr, con la stessa, appassionata, omerica epicità che ammantava le performance degli antichi cantastorie, le gesta di uno dei più straordinari geni dello scorso secolo, capace di infondere un significato inedito non soltanto al linguaggio dell’arte figurativa, ma persino a quella della comunicazione tout court.
Perché Picasso (1881-1973) era semplicemente un predestinato: lui, che tecnicamente non aveva nulla da invidiare alla perizia estetica di Raffaello, cambiò radicalmente il segno delle parole e delle immagini stesse. Le svuotò delle loro incrostazioni tradizionali, le scarnificò dalla patina di apparenza sotto la quale erano state progressivamente sommerse fino a rinnovarne radicalmente la natura.
Picasso, insomma, fece della sottrazione il metodo artistico ed umano per rivelare la vera natura dell’addizione. Una tendenza certamente trasversale alla sua produzione, ma particolarmente spiccata in quella interamente ascrivibile al periodo cubista, che sovvertì definitivamente il rapporto gerarchico tra forma e contenuto che per secoli aveva fatto della bellezza un cardine imprescindibile della fruizione artistica. Nei soggetti ritratti da Picasso la realtà si manifesta in ogni sua declinazione, soprattutto in quelle più meschine e deteriori: il punto di vista è focalizzato e multiplo, ficcante ed etereo. È l’essenziale dello sguardo a staccarsi dalla tela e a dare voce al colore, alle linee, agli angoli. E l’essenziale, per Picasso, è ciò che squarcia il silenzio.
Ma anche i predestinati, ad ogni modo, hanno bisogno della lungimiranza di qualcuno. Di un visionario disposto a condividere la loro ricerca del non visibile, l’azzardo dell’impossibile. Ebbene, non tutti sanno che Picasso ebbe un mentore d’eccezione. Anzi, una madrina dai contorni di mecenate, piuttosto, che trascorse accanto a lui anni di intuizioni, di delusioni, di successi e di fallimenti. Gertrude Stein, nella Parigi traboccante di talento e di inventiva della Belle Époque, fu a dirla tutta, con la complicità della compagna Alice B. Toklas e del fratello Leo, la guida di tante eccezionali figure che ruotavano attorno al suo milieu, sulle sponde della Rive Gauche. Sotto la sua ala protettrice esplosero in tutta la loro magnificenza i capostipiti della Generazione Perduta Hemingway e Fitzgerald, l’ingegno anarchico e volubile di Ezra Pound, le intuizioni di Matisse e Braque. Ma mai nessuno sperimentò la stessa affinità di spirito che la scrittrice percepiva frequentando l’artista spagnolo. Testimonianze evidenti di questo sodalizio del cuore sono senz’altro il ritratto che Picasso realizzò della donna tra il 1905 e il 1906 e il volumetto che l’autrice originaria della Pennsylvania intitolò proprio con il nome dell’amico, ricco di aneddoti e confessioni.
Eppure, un altro è il dato curioso che ha destato l’attenzione pluridecennale di tanta parte della critica letteraria e artistica: le opere dell’una sono lo specchio delle opere dell’altro. Quasi sovrapponibili, confrontabili in controluce, accomunati dalle medesime sfumature di imprevedibilità, Stein e Picasso incarnano, ognuno relativamente al proprio ambito, i principi di una cesura senza precedenti.
Non è un caso che, nel tentativo di catalogare lo stile sfuggente e inedito di Gertrude Stein, gli studiosi siano giunti all’affascinante dicitura di “scrittura cubista”. Così come le pennellate di Picasso, le frasi della scrittrice americana appaiono nette, fulminanti, a tratti indecifrabili, nonsense, rielaborazioni giocose e semiserie di filastrocche astruse e futili. In realtà, il loro aspetto in qualche maniera respingente cela verità scottanti e rivoluzionarie, uno studio meticoloso e irripetibile dell’aspetto fonologico e semantico. La ricercata frammentarietà predicata da Gertrude Stein è, in realtà, un meraviglioso, gigantesco tentativo di riconciliazione dell’interezza, l’osservazione sentimentale e scientifica di una realtà vivisezionata nel suo cangiante e inarrestabile divenire. Come una foto intessuta di lettere, Stein seppe ingabbiare la recalcitranza dell’istante, il suono impercettibile del mutamento. Contemporaneamente a Picasso. Analogamente a Picasso.
Benché sia complesso ricostruire con esattezza quanto pronunciato e sistematico sia stato questo singolare processo di osmosi tra i due artisti, i due approdi finali di queste faticose ricerche si scrutano intensamente negli occhi fino a riconoscersi familiari. Entrambi innamorati di un’immediatezza che rifiuta la presunzione di un approccio superficiale. Entrambi privi di accomodanti certezze. Esploratori di un modo di fare arte, e di vivere la vita, in controtendenza. Entrambi spolpati di parole, ampiezze, margini pomposi. Scheletrici nel loro intento. E per questo tremendamente sublimi.
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