“Chi scrive una poesia la scrive soprattutto perché l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza”.
Così si esprimeva Iosif Brodskij l’8 novembre 1987 di fronte ai membri dell’Accademia svedese ricevendo un meritatissimo Nobel per la letteratura (il discorso si trova ora in Profilo di Clio, Adelphi).
Già, accelerare la coscienza: è la sensazione che si prova entrando nelle nuove poesie di Daniele Gigli, Di odore e di generazione (Fara, Rimini 2019). Un libro terso e dolente, di contrasti tra luce e ombra, ma anche il bilancio di una vita.
Leggendolo, mi tornava in mente il finale della Settima stanza, lo splendido film (1995) di Márta Mészáros dedicato a Edith Stein: quando lei, dopo la morte ad Auschwitz, spogliata di tutto, s’incammina in un corridoio oscuro verso una finestra di luce, verso quel Dio lungamente inseguito. Dicono che Edith fino all’ultimo abbia trovato la forza di incoraggiare chi era nel campo con lei. Sperava immersa nella più completa desolazione degli uomini: luce- nel-buio nella cenere dell’Europa.
La speranza, nonostante tutto: è quanto mi resta dopo aver terminato il libro di Gigli che così conclude il suo viaggio nel cuore umano: “Che cosa resta, adesso?/ Forse un odore./ Forse resurrezione”.
Di odore e di generazione è un poema unitario, verticale interrogazione sulle “cose ultime”. E sulle azioni che possano trasformare i nostri giorni in esistenze autentiche: “è adesso che si sceglie/ vita o morte, speranza o perdizione”.
La meditazione di Gigli non fa sconti, è un rasoio, che s’innesta nella corrente dantesca della nostra poesia: gli interessa l’“ora di tutti” più che l’“ora del singolo” e che scrive “mentre s’invorticano i giorni/ e crepita la storia” e “dove mostra il conto il male, il male che dilaga”.
Il poeta ingaggia un corpo a corpo con la morte, che sembra Signora del campo della storia, come nel Settimo sigillo di Bergman.
C’è il sangue delle migrazioni contemporanee:
“le carovane migrano, s’incuneano le masse
d’acqua e d’uomini, s’incuneano le masse
e valico su valico, frontiera su frontiera
insistono, s’ammassano ostinate,
corpi e porti, carni e morti.”
Ci sono paesaggi assiderati abitati da automi, oppure da “pitocchi, ladroni, tossici ammalati e scorticati”:
“La fabbrica è ormai quello che ne resta:
piglie scrostate, resti d’armatura.
Qui gli altiforni fusero materia,
qui vissero e operarono gli uomini del nord.
Dove una volta c’erano le insegne sorgono altri segni –
segni di passo, segni senza vita –
dove una volta c’erano le insegne e dove adesso
solo i figli si ricordano
dei padri, dell’opera comune.”
Ci sono anime scolpite dalla solitudine:
“Questo corpo stanco, questo corpo
che patisce nei suoi giunti e si avvicina
al giorno ultimo,
che arranca e che atterrisce se prevede –
pochi gli anni scorsi, troppi quelli ancora da aspettare.
Questo corpo senza onore e senza perdita,
senza germoglio e odore,
senza chi ne continui il viaggio, il suo cognome.”
Eppure, in questo oceano livido, resta l’uomo con il suo fascinoso mistero che può rispondere alla grazia, magari improvvisa e immeritata. Come quella che incontrarono i due discepoli dal cuore spezzato sulla strada di Emmaus.
Di odore e generazione è anche un libro carico di nostalgia (di una corrispondenza interrotta, ma di tutto il catalogo delle occasioni mancate della nostra vita), che mi ha spinto a rileggere lo straordinario Testamento di Paolo VI:
“Mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce. Di solito la fine della vita temporale, se non è oscurata da infermità, ha una sua fosca chiarezza: quella delle memorie, così belle, così attraenti, così nostalgiche, e così chiare ormai per denunciare il loro passato irricuperabile e per irridere al loro disperato richiamo. Vi è la luce che svela la delusione d’una vita fondata su beni effimeri e su speranze fallaci. Vi è quella di oscuri e ormai inefficaci rimorsi. Vi è quella della saggezza che finalmente intravede la vanità delle cose e il valore delle virtù che dovevano caratterizzare il corso della vita: ‘vanitas vanitatum’. Vanità della vanità. Quanto a me vorrei avere finalmente una nozione riassuntiva e sapiente sul mondo e sulla vita: penso che tale nozione dovrebbe esprimersi in riconoscenza: tutto era dono, tutto era grazia”.
Chissà, forse la poesia non può salvare la vita, ma può aiutarci a guardarla con occhi più limpidi, a vedere “chiaro nella notte triste” come ricordava Ungaretti nel Dolore.