Vanno a chiudersi le celebrazioni a ricordo del maestro/architetto Gio Ponti, a quarant’anni dalla morte (Milano, 1891-1979). Chiudersi, poi… forse in senso strettamente temporale, non certo a riguardo del suo pensiero, delle sue opere, delle sue “sorprese”. Eccone una, perché di sorpresa trattasi. Un testo scritto da lui per il teatro, dimenticato eppure freschissimo e mai rappresentato: Il Coro Cronache immaginarie.
Uscì nel 1944, con il Paese provato dalla guerra, in 700 esemplari per una casa editrice – Edizioni di “Uomo” – che muoveva i primi passi proprio in quell’anno per volontà di intellettuali vivaci quali Domenico Porzio, Oreste Del Buono, Marco Valsecchi (nello stesso anno, Carlo Bo pubblica, con quell’editore in erba ma obiettivamente ambizioso, un’opera che avrà un’importante eco: Antologia del Surrealismo).
Il Centro Culturale di Milano ha deciso di portare in scena l’opera (10 e 17 dicembre, ore 21, Auditorium CMC, Largo Corsia dei Servi 4, Milano, ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria) producendola in collaborazione con l’Ordine degli architetti, paesaggisti e conservatori della Provincia di Milano, il mensile Vita, il Teatro degli Scarozzanti e il patrocinio del Regione Lombardia.
Il Coro è un testo di straordinaria attualità. C’è la città intesa come coralità di voci, come popolo, come professioni. Volti non soffocati da lutti e macerie; l’anno prima Milano visse la terribile esperienza delle bombe che dall’alto ne ferivano i quartieri. Sono persone che comunque la vivono tenendola insieme, risollevandola sollevandosi gli uni con gli altri nell’adempiere responsabilmente all’atto del ricostruire. Ricostruire in coro. Ciascuno e tutti. Una bella e drammatica storia di comunità.
Nel prologo Gio Ponti dice quel che gli preme, quel che intende, richiamo a sé e a noi. In quel presente come in questo di presente. Il frammento è ricchissimo:
“Ascoltando il teatro non con la brutta consuetudine critica ma con un cuore totale, come fanno il popolo e i bambini, non ci vediamo trasposti nei personaggi? Non ci sentiamo ‘noi’ in loro? Non viviamo le nostre e loro passioni? Uno o l’altro di quegli uomini sul palcoscenico potevo essere io. E perché dunque travestire il teatro e non essere invece noi, traportandovici noi stessi? Così solo il teatro potrà rivivere, essere davvero contemporaneo; essere il nostro teatro e di massa, non numericamente tale, ma tale perché lì siam tutti noi. Massa vuol dire noi, non numero. Vuol dire corpo. Vuol dire finalmente personalità. Essere della massa, consapevoli, vuol dire essere più ricchi, più fraterni, più personali. Evaderne, credere alla individualità, coccolare le individualità, è impoverirci. È restar fuori del coro, fuori della portata. Il coro reca doni immensi. Santi ed eroi sono sempre del coro. Nel teatro ciò non vuol dire né verismo, né realismo, né surrealismo; ciò vuol dire fare il teatro della nostra vita. Fare finalmente il teatro senza presupposti, senza estetiche, e senza arte. Per fare finalmente dell’arte! Altri ha già pensato così? Certo. Ma io l’ho pensato ora, e altri lo penseranno domani”.
Andrea Carabelli, regista e attore, ha curato l’adattamento del testo. Con lui sulla scena ci sono i 12 allievi attori della Scuola Flannery O’Connor del Centro Culturale di Milano. Intercettandolo nei giorni immediatamente precedenti la prima rappresentazione/evento ci dice che “per me il verso più significativo, quello che fa comprendere questa preghiera – perché tutte le caratteristiche della preghiera ci sono, visto che è rivolta a Dio ed è recitata in coro – è questo: ‘Dio sorreggici nel miracolo della vita’. La vita per Gio Ponti è un miracolo, ‘ogni cosa è ricchissima, tutto è sorriso, regalo’; e fin qui questo pensiero potrebbe essere sottoscritto se non da tutti, da molti. Se non fosse che quest’opera è scritta nel ’44, vale a dire un anno dopo i bombardamenti su Milano. Siamo ancora in guerra, tutto è miseria e macerie, e per Gio Ponti ‘la mamma è bella, il papà fa cose meravigliose’. C’è una speranza, anzi c’è una certezza della speranza che a mio parere rende ragione di tutta la grandiosa e successiva attività del nostro architetto. Tutta la forza propulsiva della sua prolifica opera artistica che si è sviluppata in modo così assiduo e continuo e coinvolgendo i più disparati ambiti culturali a mio parere si spiega tutta in questo testo. La certezza che la vita è miracolo e la speranza nei figli, da guardare continuamente per ricordarsi dell’innocenza di cui siamo fatti, accoglie tutte le difficoltà, i dolori e le miserie che l’Italia, l’architettura e Gio Ponti dovettero affrontare nel corso degli anni”.
Nella forma scelta da Gio Ponti per dire con le parole ci passa un solido significato, il suo modo di pensare e rendere la concretezza del costruire. Ancora Carabelli: “La forma con cui comunica la sua verità è quella del coro. In questo si dimostra un vero architetto: la differenza con qualunque altra forma d’arte è la necessità che la propria opera non sia autoreferenziale: non può esserlo per il semplice fatto che in una costruzione architettonica ci dovrà vivere della gente. L’architetto in questo più che ogni altro artista è portato ad avere una dimensione comunitaria del proprio lavoro: deve servire a tutti. E questo in teatro significa ‘fare coro’. Ma quello di Ponti non è un coro semplicemente fatto di tante persone ma è formato dalle professioni: sono operai, contadini, soldati, frati, suore, medici… Professioni che hanno bisogno di essere guardate da Dio che solo può ridare dignità alla loro miseria. È una confessione, una richiesta di perdono, una riconoscenza. La riconoscenza del miracolo appunto”.
La speranza si rintraccia e ti rintraccia, non come pendolo dialettico. Scombina e ordina, è nel coro, protagonista. “Tutto ricomincia, tutto vive di speranza, tutto è miracolo e a Dio non si può far altro che chiedere di sorreggerci nel riconoscere questo miracolo. E questo ‘sorreggerci’ trovo sia l’invito più bello dello spettacolo. Un invito che riguarda ognuno di noi. Perché ognuno di noi per vivere altro non ha bisogno se non di chiedere a Dio di tenere aperti i nostri occhi al miracolo della vita”, chiosa Carabelli.
Lo spettacolo viene introdotto da Fulvio Irace (architetto, storico dell’architettura, docente universitario: ha scritto saggi su Gio Ponti) che ha curato – insieme a Maristella Casciato, Margherita Guccione, Salvatore Licitra, Francesca Zanella – la grande mostra al Maxxi di Roma inaugurata pochi giorni fa e dal titolo “Gio Ponti. Amare l’architettura”. E all’inizio dà voce proprio al pensiero di Ponti, che spiega le ragioni dell’opera in un’approfondita introduzione. Mentre alle spalle scorrono immagini di alcune tra le più importanti realizzazioni architettoniche di Ponti: case, palazzi, chiese, e la Concattedrale di Taranto.
E sempre sulla voce che ritorna e incalza Gio Ponti quasi la alza, la sua di voce, come invocazione, preghiera appunto:
“Non ci basta più una voce sola. Non crediamo più alla voce sola. La intendiamo solo nel coro. Vogliamo più uomini, più voci di uomini, perché ci testimoniano di tutti gli uomini. Come una gran parete dove si seguono affreschi di geni diversi, come l’antica pittura murale: e corale”.
In questa prospettiva sorgiva e creativa Ponti auspica la necessità di un contributo musicale che non sia sottofondo ma parte integrante del coro. Ed è così che il Centro Culturale di Milano ha affidato al compositore Marco Simoni, diplomato al Conservatorio di Milano (2003), la partitura delle musiche originali.
La città contemporanea la si può intendere come la gran parete della cronaca immaginaria suggerita dal nostro maestro/architetto e da affrescare secondo i propri talenti in un concerto di economia umana. Redditizio. Vantaggioso. Soddisfacente. Senza dubbio costruttivo. Lì sta, ovviamente, l’artista che
“deve essere quel che è; sincerissimo, svelato, impudico, confessato in pubblico, in quel momento in quella contingenza nei quali è lui ed è di tutti, è una creatura, è un essere vivente. CORO! Allora è un essere collettivo, cioè un essere vero, cioè ‘una personalità più grande’. È coro”.