Quando ho letto nel libro, piccolo ma denso di don Julián Carrón (Il risveglio dell’umano. Riflessioni da un tempo vertiginoso, Bur 2020) il nome di mons. van Thuán, mi è tornata in mente una grigia alba invernale ad Hanoi, più di trenta anni fa, quando – alla fine della messa mattutina in cattedrale – qualcuno che non conoscevo mi venne incontro, invitandomi a seguirlo in sacristia e poi nel giardino retrostante. Qui mi presentò una persona, vestita con ordinari abiti vietnamiti, senza segni particolari, dicendo: “È mons. François-Xavier Nguyên Van Thuán”. Ne avevo sentito parlare e sapevo della sua lunga prigionia, ma ignoravo che fosse stato appena liberato.
Van Thuán era legato da uno stretto vincolo di parentela con il presidente Ngô Đình Diệm, un politico illuminato, appartenente ad una famiglia nobile, che era stato alla guida del Vietnam del Sud dal 1955 al 1963, finché gli Stati Uniti non lo avevano scaricato, lasciando che venisse ucciso durante un colpo di Stato organizzato da un generale ambizioso. Come appresi in seguito da lui stesso, Van Thuán non aveva simpatia o fiducia negli americani, che tra l’altro a fine aprile 1975 erano fuggiti precipitosamente da Saigon, abbandonando i loro amici e alleati nelle mani dei comunisti del Nord Vietnam. A questi ultimi, le sue opinioni sugli americani interessavano poco: il solo fatto di essere stato nominato arcivescovo di Saigon durante l’occupazione militare degli Stati Uniti costituiva secondo loro di per sé una colpa evidente. Costretto a pagare per un legame con gli occupanti stranieri che non aveva mai avuto, la sua prigionia gli apparve una beffa amara. Tutto gli fece sembrare assurda la sua situazione. Durante la permanenza in carcere, spiega don Carrón, si tormentò a lungo chiedendosi quale utilità potesse avere la sua vita: “A cosa mi serve conservare la vita se non riesco a compiere la missione per cui sono nato?”.
Alla fine dell’incontro di tanti anni fa, saputo che venivo da Roma, mi disse: “Dica al Papa che prego sempre per lui e che sono pronto a riprendere il mio servizio”. In tanti anni di prigionia ciò che più gli era pesato era stato non poter esercitare il suo compito di vescovo e sostenere le tante attività che aveva avviato nella sua diocesi. Ma poi aveva capito che anche in prigione c’era una Presenza accanto a lui e che anche lì poteva testimoniare il Vangelo, amando i suoi carcerieri, cui insegnò il russo e altre lingue. I suoi nemici ne furono sconvolti.
Don Carrón ricorda questa lezione di mons. van Thuán per illuminare la situazione creato dalla pandemia di Covid-19 nella vita di milioni di persone. In questo tempo così strano, spiega, “la realtà, che sembrava qualcosa di superato […] si sta riprendendo la scena, sta ritornando prepotentemente alla ribalta”. È una realtà, però, che a molti appare irreale. La pandemia, infatti, ha chiuso nelle loro case tanti che erano abituati a starne fuori tutto il giorno, ha impedito le loro normali attività quotidiane, li ha separati dai loro rapporti abituali mentre li costringeva a insoliti rapporti diretti e prolungati con i propri familiari e così via.
Don Carrón non nega lo straniamento provocato da questa situazione anomala. Ma ribadisce: è la realtà. E dobbiamo viverla non solo perché siamo obbligati a farlo, ma soprattutto perché siamo chiamati a farlo. “Non abbiamo altro luogo in cui può giocarsi la vita come significato, come destino; non abbiamo altro modo di camminare verso il nostro compimento al di fuori delle circostanze in cui ci troviamo”. È un capovolgimento.
Se siamo chiusi dentro casa e costretti all’inattività non dobbiamo sentirlo come una sospensione della vita ma al contrario come una sua intensificazione, non come costrizione alla solitudine ma come possibilità di scoprire una Presenza… Non è un invito ad affermare la superiorità della contemplazione sull’azione, precisa l’autore. Ma a cercare di incontrare il Mistero nelle circostanze in cui ci veniamo a trovare, qualunque esse siano. “C’è un punto che accomuna tutti ed è la disponibilità ad accettare la chiamata che viene dalla realtà”.
Ecco perché la testardaggine della realtà non ci deve lasciare tranquilli. Con Nietzsche, osserva, ci eravamo convinti che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Ma ora, questa sentenza viene messa in discussione da una realtà che si impone con forza, senza essere voluta da nessuno e senza che nessuno possa allontanarla. È una realtà che ci fa scoprire una profonda fragilità.
Alberto Savorana, che intervista don Carrón, dà voce alla domanda di buon senso che tutti ci siamo posti durante questa pandemia: “Che guadagno abbiamo nello scoprirci fragili, vulnerabili? A che cosa serve?”. Ma lo sconvolgimento creato dal coronavirus spiazza il buonsenso, le sue rassicurazioni abituali diventano inutili. La situazione provocata dalla pandemia – assurda, come era quella di mons. van Thuán in prigione, anche se per molti decisamente meno dolorosa e difficile della sua – ci mette in una situazione limite, ci obbliga a interrogarci anche sulla morte: non sollecita il nostro buonsenso, ci pone una domanda di senso.
È l’assurdo evocato da Albert Camus ne La Peste, un libro tanto citato in questi giorni. E l’assurdo non ammette risposte normali. Non è ad esempio normale, nota l’autore, che Gesù a Naim dica alla madre cui è appena morto un figlio: “donna, non piangere”. È “una incongruenza strana […] come si fa a dire a una donna vedova cui è morto il figlio: ‘non piangere’? È assurdo”. Eppure, osserva don Carrón, “chissà come si sarà sentita quella donna, investita da un abbraccio che superava ogni umano sentimento e le ridava speranza!”. Mentre sono sulla barca – un’immagine evocata in modo tanto significativo da Papa Francesco in queste settimane, come ricorda don Carrón – i discepoli discutono e si comportano come se Gesù non ci fosse. Ma in ciò che sembra un’assenza, c’è invece una presenza. Nell’assurdo creato dalla pandemia, ciò che ci sembra irreale si rivela reale e dalle parole del Vangelo la nostra vita riceve un senso che abitualmente non percepiamo. È difficile comunicare tutto questo con un piccolo libro, eppure il suo autore ci riesce. Non è un merito da poco.