Tutti gli ultimi capitoli dei quattro vangeli pullulano di fatti connessi all’evento “impossibile” della Risurrezione: fatti nudi e crudi, privi di commenti a margine, scolpiti nella realtà dolorosa e incandescente di Gesù crocifisso e risorto.

E tuttavia, nonostante la colossale imponenza di questo avvenimento, cova nel cuore di ciascuno un’ultima perplessità che, come un tarlo, si insinua velenosa dipingendosi: allora, sui volti dei suoi amici, e oggi sui nostri.



Insomma, che Gesù sia veramente risorto, non ci si crede fino in fondo: non ci credettero gli apostoli davanti al sepolcro vuoto, alla pietra ribaltata, ai messaggi da Lui stesso consegnati alle donne – considerate fin da allora creature sentimentali e visionarie –; e non ci crediamo noi, vittime di una cultura nichilista, incapace di “sottomettere la ragione all’esperienza”, persuasa che niente, tanto meno un fantasma, possa “strapparci dal nulla”, un nulla nel quale siamo precipitati, specialmente nel “tempo sospeso” della pandemia.



Ma qual è il macroscopico indizio che, leggendo i vangeli, ci documenta questa caparbia incredulità cui si accompagna un sentimento di delusione amara e di paurosa incertezza? Emerge spesso che, quanti venivano raggiunti da Gesù risorto, difficilmente lo riconoscessero o che comunque tale riconoscimento fosse accompagnato da un sentimento di timore, se non addirittura di paura. Si è soliti dire che la paura acceca; ed esattamente da questa paura erano costantemente assaliti uomini e donne appartenenti all’entourage più ristretto di Gesù: una paura che li sgomentava, li confondeva, li faceva dubitare a tal punto che neppure a testimoni diretti che lo avevano visto, neppure a loro, erano disposti a credere (cfr. Mc 16,11-13).



Se i tre sinottici presentano versioni differenti in alcuni dettagli della narrazione, comune denominatore rimane il costante rifiuto ad ammettere l’evento della Risurrezione, cui peraltro Gesù stesso li aveva ripetutamente preparati. Appare strano come proprio i suoi, quelli che con Lui avevano condiviso tre anni di vita pubblica secondo una prossimità a nessun altro consentita, proprio loro potessero scambiarlo per un fantasma o – come accadde a Maria di Magdala presso il sepolcro vuoto – per il custode del giardino; ma anche Pietro con alcuni degli undici, dopo una nottata di pesca andata male, scorgendolo all’alba sulla riva del mare di Tiberiade, non si accorse subito che la sagoma, accanto alla brace appena allestita, era proprio quella di Gesù, presente in carne ed ossa! (Cfr. Gv 21,2-14).

Ma perché dunque non credevano al Signore risorto? E perché anche noi fatichiamo così tanto ad ammetterlo?

In un testo mirabile, Giussani parla di Cristo come “Il segno dei segni”: dopo aver sottolineato come tutto nella realtà sia segno perché, quello del segno, è stato ed è da sempre il metodo di Dio, Giussani aggiunge che anche la persona Cristo è un segno, pur trattandosi – puntualizza – di un “segno strano”. “Pretendeva infatti qualcosa di più: essere proprio quello di cui tutta la realtà è segno”. Fu esattamente per questo che “anche i discepoli dovettero avere fede in Lui, non videro Dio in Lui, videro Dio in Lui come oggetto della fede. Così che, pur vivendo nella carne, vissero tutta la loro vita nella fede” (cfr. Gal 2,20).

Per riconoscerlo quindi – allora come oggi – occorre “partire dalla carne”.

E dalla carne parte infatti Giovanni che, mentre si trova anche lui sulla barca con gli altri discepoli, rivolgendosi a Pietro, grida senza esitazione: “È il Signore!”. Nei tre anni di convivenza ha imparato ad essere leale con sé stesso, a dipendere dalla propria esperienza, a non tacitare l’istante di corrispondenza che gli fa vibrare il cuore.

Solo chi cede a questa corrispondenza, assecondando il suggerimento della realtà, può riconoscere Gesù risorto e ripetere con una certezza colma di speranza: “Non abbiamo mai visto nulla di simile”.

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