Sono sempre stato molto orgoglioso dei miei due nonni. Sono ormai morti da diversi anni, quando ero ancora poco più che un ragazzino, ma entrambi hanno sempre rappresentato per me un motivo di ispirazione e di guida ideale nelle mie azioni.
Bruno, nonno da parte di mia mamma, ha combattuto durante la seconda guerra mondiale con i carristi italiani fino alla storica battaglia di El Alamein, dove è stato fatto prigioniero dagli inglesi del generale Montgomery.
Carlo, nonno dal ramo di mio papà, alpino, all’indomani dell’8 settembre 1943 viene deportato dai tedeschi nei campi di concentramento nazisti, insieme a tanti suoi compagni (tra questi insieme a lui c’erano, tra gli altri, anche Giuseppe Lazzati e Giovannino Guareschi) che avevano mantenuto fede al giuramento prestato al re e alla Patria.
Com’è noto, da quel momento in poi seguiranno mesi di indicibili umiliazioni e sofferenze, ora magistralmente ricostruite dal punto di vista storico in un libro (Mario Avagliano, Marco Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti, Il Mulino 2020) che ripercorre le vicende degli IMI (internati militari italiani), cioè degli oltre 650mila uomini che furono catturati e deportati nei lager tedeschi. L’offerta di aderire alle SS o alla repubblica di Salò fu accettata solo da una piccola parte e la grande maggioranza scelse di rimanere prigioniera a Sandbostel, Dortmund, Buchenwald, Częstochowa e in tante altre baraccopoli, tra fame, freddo, sporcizia, malattie, umiliazioni e violenze di ogni sorta. Si trattò di una vera e propria “resistenza senz’armi”, meno declamata dalla storiografia ufficiale rispetto alla lotta partigiana, ma non per questo meno decisiva per le sorti della guerra e per il futuro del nostro Paese.
Abbandonati dalla patria e dagli ideali ai quali avevano sacrificato mesi (di guerra) e anni (di vita), confusi da false notizie circa gli avvenimenti della guerra, si trovavano da soli ad affrontare una delle più grandi violenze contro l’umanità che la storia abbia mai conosciuto. Tutta la tragedia di quell’esperienza emerge dalle loro parole, delle quali si riporta qui solo qualche esempio.
Uno di loro scrive: “ho assistito alla fine di un sogno, ho sepolto una vita che era stata tutta la mia passione, tutta la mia fierezza, tutta la mia speranza”. E un altro: “Siamo soli non combattiamo più per nessuno ma solo per noi stessi in nome della nostra coscienza, del nostro onore, della nostra dignità di uomini”. E ancora un altro constatava amaramente: “tutto il mondo ci è contro”. Accanto a una “fame senza speranza”, una disperata solitudine: “piango sulla giovinezza tradita, sugli ideali giovanili infranti, sulle illusioni perdute, piango per il desiderio degli affetti familiari, su ciò che poteva essere e non è stato, piango e mi assale grande pietà di me stesso. Il mio cuore urla, e nessuno lo sente!”. Oppure ancora, nella famosa sintesi di Guareschi del maggio 1945: Internato Militare Italiano (IMI): Ingannato, Malmenato, Impacchettato / Internato, Malnutrito, Infamato / Invano Mi Incatenarono / Inutilmente Mussolini Insistette / Iddio Mi Illuminò / Inverno Malattie Infierirono / Invano Mangiare Implorai / Implorai Medicinali Indumenti / Italia Mi Ignorò / Invocai Morte Immediata / Impazzivo Ma Insistetti”.
Non è possibile qui descrivere le degradanti condizioni in cui si trovarono a combattere tra la vita e la morte, né ripercorrere le tante vicende che pur meriterebbero ancor oggi attenzione e memoria. Ma tra i tanti episodi tragicamente commoventi raccontati nel libro, uno dei più significativi per me è quello della vicenda della Radio Caterina, un rudimentale apparecchio acustico che alcuni internati, tra i quali mio nonno, costruirono per ricevere le notizie di “Radio Londra” e rimanere informati sull’andamento della guerra e poter così evitare di cadere nelle falsità e nelle trappole della propaganda nazista.
Da piccolo portai a scuola con orgoglio una copia di questa rudimentale radio fatta con scatolette di latta, monetine di rame e altro materiale di fortuna. Mi piace sempre pensare che mia sorella Caterina porti quel nome non solo per la grande santa di Siena patrona d’Italia, ma anche per un piccolo omaggio a questa esperienza di nostro nonno.
Fu da queste atroci sofferenze che quegli stessi uomini tornarono in Italia e fecero grande questo Paese, costruendo da zero tutto ciò di cui oggi il nostro Paese può andare fiero. Come ha scritto ancora uno di loro: “Tutte le cose vive e vitali nascono dalle sofferenze e dal dolore; chissà che l’Italia di domani non nasca nei campi di concentramento di Polonia”.
Per questo forse è importante riscoprire oggi questa tragica esperienza di mio nonno e dei suoi compagni internati. La loro storia ci insegna che nulla è perduto e che anche nelle circostanze più avverse, se l’uomo non perde completamente sé stesso, si può sempre ripartire. Sostenuti dalla fede e da un ideale più grande di qualsiasi male, anche le vicende più tragiche della storia possono essere affrontate da uomini. Riscoprire oggi queste vicende ci aiuta quindi ad affrontare con lealtà, coraggio e spirito di sacrificio ogni circostanza avversa a cui ci troveremo ad andare incontro. E quanto avrebbe bisogno il nostro Paese – ad ogni livello – di quel coraggio, di quella lealtà, di quella tensione ideale e spirito di sacrificio che ancora oggi a distanza di anni loro ci testimoniano!