Sant’Agostino mi stava tendendo agguati da anni. Ma non lo sapevo. L’ho scoperto tardi nella mia vita. Ed è una colpa. Le sue Confessioni, nonostante risalgano al IV secolo, sono un libro di straordinaria modernità. Andrebbe letto nel pieno dei vent’anni, per la sua carica di passione, intelligenza, ricerca esistenziale. Per puro caso, mentre scoprivo le Confessioni, mi ero inoltrato in un altro testo che andrebbe anch’esso gustato per tempo: l’Apologia pro vita sua di John Herny Newman. Un’altra appassionata ricerca della verità, durata anni.



Trovai che c’era una stretta parentela tra queste due autobiografie. Arrivai, con l’impudenza dei neofiti ignoranti, a dire ad un saggio presbitero che tra Agostino e Newman, per quasi 15 secoli mi pareva non ci fosse stato nulla di paragonabile, di così esistenzialmente personale, nella letteratura cristiana. Il presbitero mi corresse ma solo in parte. In un recente articolo, lo scorso 5 febbraio su Avvenire, il filosofo Massimo Cacciari ha sostenuto che per ritrovare una voce paragonabile a quella di Agostino occorre arrivare a Pascal, nel XVII secolo. Ho parzialmente annuito, avendo avuto la fortuna di leggere i Pensieri di questo straordinario francese, ma ritengo superiore il paragone con Newman.



In ogni caso gli agguati agostiniani nei miei confronti non erano finiti. Ancora per caso, m’imbattei in alcune pagine di Ratzinger dove si sottolinea che l’introspezione soggettiva di Agostino rappresenti quasi un unicum nella teologia cristiana e che si dovesse attendere per l’appunto Newman per ritrovare accenti simili. Nella notevole biografia di Benedetto XVI, scritta da Peter Seewald, è palpabile la passione che fin da giovane Joseph Ratzinger ha nutrito per Agostino. La sua tesi di dottorato fu proprio su di lui.

Manco a farlo apposta, nel giorno delle esequie di Benedetto XVI mi sono ritrovato a visitare una città ammirevole e ingiustamente poco valorizzata, Pavia, l’antica capitale longobarda che accoglie da secoli, in una splendida tomba, le spoglie del santo africano.



L’ultimo agguato è stato il saggio che Marcello Pera, senatore, accademico e in passato presidente del Senato, ha dedicato al vescovo di Ippona. Gli è costato anni di ricerca e riflessioni: Lo sguardo della caduta. Agostino e la superbia del secolarismo (Morcelliana, 2022). Con Pera, così come con altri autorevoli studiosi, riemerge la straordinaria influenza di Agostino fino al moderno pensiero politico. Anche chi è digiuno di letture agostiniane sa qualcosa della sua celebre opera La Città di Dio. Non si fermi alla diffusa idea, peraltro riduttiva, di una meccanica e fuorviante contrapposizione tra la città terrena e quella divina. Sappiamo che Agostino scrisse quel testo per difendere il cristianesimo dall’accusa di essere la causa della caduta dell’Impero romano. Ma la questione è ben più complessa e attuale e ce lo dimostra Pera nella sua ultima fatica, dove emerge anche una non dissimulata nostalgia per l’acutezza di giudizio del vescovo di Ippona: “Siamo senza Agostino a descriverci la decadenza della civiltà cristiana dell’Occidente come egli descrisse la caduta di Roma. Siamo senza Agostino a dirci che la civitas impiorum caret iustitiae veritate (….). E siamo senza Agostino ad ammonirci: vae qui habent spem in saeculo!”.

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