Nel complesso delle credenze religiose etrusche, Tagete era un fanciullo prodigiosamente emerso dalla terra, mentre un contadino stava arando. Il grido di stupore del contadino fu tale da far accorrere e radunare tutti gli abitanti dell’Etruria. Il bambino, che possedeva il volto e la saggezza di un vegliardo, iniziò a parlare ed enunciò il complesso delle norme che regolavano il rapporto tra gli uomini e gli dei.



Questa tradizione è riportata da Cicerone nel suo De Divinatione (II, 23), dove afferma che gli Etruschi consideravano gli scritti contenenti tali norme come “la fonte della loro disciplina”.

Tagete sarebbe raffigurato in una statua votiva, conservata ai Musei Vaticani (attualmente esposta al Museo Civico Archeologico di Bologna, nell’ambito della mostra “Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna”, fino al 24 maggio 2020), in cui un fanciullo, identificato come tale dalla bulla portata al collo (ornamento tipico dei giovani in età puberale), presenta i tratti di un uomo maturo.



Il complesso dei miti e delle tradizioni religiose etrusche era vasto e variegato: sempre a Bologna sono esposti vari oggetti legati a questo contesto affascinante e multiforme, di cui ci sono rimaste ampie tracce provenienti soprattutto da contesti funerari e templari.

Il mondo degli dei era legato alla sfera dell’oltretomba e ai riti connessi alla celebrazione dei defunti: divinità come Fufluns/Dioniso erano raffigurate su vasi e suppellettili di vario tipo, e richiamavano una visione del mondo infero connessa a concetti antitetici rispetto alla morte, quali il vino, l’ebbrezza e la gioia.



Il mondo delle divinità permeava la politica e portava i tiranni a identificarsi con Hercle/Eracle, che per le proprie imprese aveva meritato di essere accompagnato nell’Olimpo da Atena, metafora di un ruolo non più tramandato per diritto di sangue, ma conquistato attraverso le qualità personali.

Il mondo degli dei si connetteva anche all’urbanistica, in quanto le città di fondazione (nate sulla base di una precisa volontà politica) dovevano conservare un rimando alla sfera celeste, di cui riprendevano la suddivisione e l’orientamento spaziale.

Una fondamentale considerazione sulla religione etrusca è espressa dall’archeologo Massimo Pallottino, che nel suo manuale di Etruscologia rileva come in essa “la concezione degli esseri soprannaturali è dominata da una certa imprecisione nel numero, nelle qualità, nel sesso, nelle apparenze: imprecisione che fa sospettare la credenza originaria di forze divine dominanti nel mondo attraverso manifestazioni occasionali e molteplici che si concentrano in divinità, gruppi di divinità e spiriti” (p. 327).

A quando venivano fatte risalire le parole di Tagete? A quale momento della storia, dunque, era associata l’etrusca disciplina? A quando si datavano le imprese di Hercle cui si richiamavano i tiranni? Non possiamo saperlo noi e non potevano saperlo gli Etruschi, perché mai è esistita una tradizione che facesse risalire queste forze a un contesto storicamente conoscibile.

Lo stesso vale per tutte le religioni del mondo antico: l’origine di Zeus e Dioniso, di Marte e Diana, di Iside e Osiride risiede solo e unicamente nel mito, senza che vi fosse pretesa o tentativo di allacciamento al mondo reale.

La ricerca di un dio, di un mondo trascendente che potesse contribuire a dare un senso all’esistenza terrena era ben presente presso queste civiltà. Anzi, era molto più presente di quanto non lo sia oggi, in cui l’uomo crede di poter bastare a se stesso. Però questa ricerca del divino si collocava in una sfera priva di qualunque legame storico, fisico o teorico con le vicende umane.

Una delle grandi rivoluzioni del cristianesimo è stata quella di far irrompere il Divino nella storia. Di trasformare quello che prima era un mondo nebuloso e irraggiungibile in una realtà terrena, reale e tangibile. Che prima di tutto si è resa concreta in quanto si è inserita nel corso degli eventi che connotano l’esistenza degli uomini e delle donne, con la nascita di Gesù Cristo così come è storicizzata dall’evangelista Luca, che la colloca “Al tempo di Erode, re della Giudea” (1, 5), quando “un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra”, nel momento in cui “era governatore della Siria Quirinio” (2, 1-2).

Non più, dunque, un tempo a-storico, nebuloso e inconoscibile, né una manifestazione molteplice e occasionale del divino: Gesù è una persona con una storicità ben definita, di cui l’evangelista Matteo enuncia l’intera genealogia (1, 1-17).

Non più una divinità che si colloca in un luogo ignoto, invisibile e irraggiungibile, ma un Dio fatto uomo che agisce, lavora, parla e mangia in luoghi ben precisi, da Betlemme a Nazaret, da Cafarnao a Gerusalemme.

L’irruzione del Divino ha fatto sì che, per la prima volta, Dio fosse non solo conoscibile, ma anche raffigurabile: tra le conseguenze dell’Incarnazione vi è la possibilità di conoscere fisicamente Dio fatto Uomo, diventato visibile e circoscrivile, nella maniera in cui è stato visto e conosciuto dai suoi discepoli e dalle sue genti. Così, mentre nell’antichità le immagini degli dei erano interpretazioni antropomorfe delle caratteristiche che si pensava fossero loro attribuibili (gli dei erano nella mitologia e potevano assumere sembianze umane, ma quella non era la loro forma, bensì solo un’apparenza esteriore), la religione cristiana introduce la grande novità di poter raffigurare il divino che ha fatto suoi i lineamenti dell’umano.

Per citare Joseph Ratzinger, “la fede cristiana non è prodotto delle nostre esperienze interiori”, ma “è qualcosa che accade”, nell’ambito di una realtà che “poggia su eventi e non sulla percezione della profondità del proprio intimo”.

Una concezione diametralmente opposta rispetto a quella degli antichi. Che hanno cercato Dio, apparentemente senza sosta, dovendosi però rifugiare in un complesso di miti e narrazioni fantastiche, poiché non erano ancora stati accarezzati dalla Sua Incarnazione.